sabato 9 luglio 2005

«L'affinità sostanziale di Illuminismo e Cristianesimo»
il "vicario di dio" e il laico Habermas

il manifesto 9 Luglio 2005
Verità in gioco nell'incontro tra ragione e religione
FRANCA D'AGOSTINI
Un confronto tra il cardinale Ratzinger e il filosofo Jürgen Habermas avvenuto a Monaco nel gennaio 2004, e ora pubblicato in due edizioni: con il titolo Etica, religione e Stato liberale da Morcelliana, e con il titolo Ragione e fede in dialogo da Marsilio. Al cuore della questione il ruolo pubblico della religione
Mentre Habermas sostiene che per garantire la pace sociale bisogna distinguere il discorso secolare dal discorso religioso per Ratzinger la ragione è una sola e si manifesta ugualmente nei laici e nei cristiani. Ma sullo sfondo del dibattito una trappola incastra sia il filosofo laico che il cattolico razionalista
La bibliografia di e su Joseph Ratzinger si è infittita in modo impressionante negli ultimi mesi, dopo la nomina a pontefice. Si tratta soprattutto di riedizioni, interviste, rapide biografie e colloqui con vari personaggi dell'attualità politica e culturale. Ma ha un particolare interesse, perché va al cuore della questione, il confronto del cardinale Ratzinger con Jürgen Habermas avvenuto a Monaco nel gennaio del 2004, sui «Fondamenti etici prepolitici di uno Stato liberale» (più semplicemente: il ruolo pubblico della religione). Non deve dunque sorprendere che i testi dell'incontro siano usciti simultaneamente in due edizioni: con il titolo Etica, religione e Stato liberale, a cura di Michele Nicoletti, con una premessa di Florian Schuller (Morcelliana, pp. 57, 6 euro), e con il titolo Ragione e fede in dialogo, a cura di Giancarlo Bosetti e con una postfazione di Massimo Rosati (Marsilio, pp. 93, 7,50 euro). Il lettore non troverà, in queste pagine, un aperto annuncio delle idee di fondo che ispirano il nuovo catechismo cattolico (con le imbarazzanti affermazioni su guerra giusta e pena di morte), né troverà traccia delle convinzioni che hanno guidato l'ex prefetto dell'ex Sant'Uffizio nel cogliere al balzo con elegante prontezza, all'indomani dell'ascesa al soglio pontificio, la palla del referendum. Non si troveranno neppure presagi impliciti o espliciti dello sventurato accenno alla natura «anticristiana» del terrorismo. Ratzinger qui non è il risoluto tradizionalista che abbiamo imparato a conoscere, ma un intellettuale libero e neutrale, interessato all'accordo con il suo interlocutore, pronto a sottolineare i motivi di convergenza a scapito delle ragioni di disaccordo. Habermas d'altra parte non è qui (solo) il laico difensore di un'idea di Stato autosufficiente, libero da tradizioni religiose e metafisiche, ma il teorico di una filosofia politica attenta al ruolo sociale e «motivazionale» delle credenze religiose.
Eppure, a una lettura attenta, nei due brevi discorsi ci sono le premesse di tutto questo, e sono leggibili chiaramente, come cercherò di evidenziare, tanto in quel che separa i due interlocutori (qualcosa di più decisivo di quanto sembri all'apparenza, e stando alle loro parole reciprocamente gentili), quanto in quel che li unisce più profondamente (al di là dell'accordo politico). In particolare, sullo sfondo dell'intero dibattito c'è una trappola segreta: come una botola, in cui inavvertitamente precipita il laico Habermas, ma su cui vacilla, in bilico, anche il razionalismo cattolico di Ratzinger.
Quel che hanno in comune
Ratzinger e Habermas hanno molti punti di contatto: la stessa età (Habermas è nato nel 1929, Ratzinger nel 1927), la stessa nazionalità, una formazione analoga. Entrambi coltivano una precisa opinione circa l'uso pubblico delle idee. Habermas è notoriamente un teorico della filosofia come attività (anche o principalmente) orientata al confronto con la «sfera pubblica»; Ratzinger è lo studioso e il teologo che ha riversato nel potente apparato mediatico predisposto da Wojtyla i contenuti della sua ricerca sull'ortodossia cattolica, facendo della silenziosa Congregazione per la Dottrina della Fede una voce capace di intervenire nei dibattiti politici e culturali (è stato da lui lanciato, pare, l'uso delle conferenze stampa per divulgare acquisizioni dottrinarie di interesse sociale). Wojtyla era un papa-filosofo, certamente, ma non come filosofo, bensì come sacerdote e uomo di chiesa, mirava all'incontro con i media; questo invece è un papa-intellettuale pubblico, sarà bene ricordarlo.
L'avvio della discussione è ciò che Habermas chiama il «teorema di Böckenförde»: un teorema che giudica potenzialmente «pericoloso», e strettamente collegato al neopositivismo giuridico. In base a tale teorema, lo Stato non sarebbe in grado di legittimare se stesso e i propri presupposti, e necessiterebbe dunque di «potenze di supporto» extrarazionali, per esempio: la religione. Ora per Habermas non è precisamente così: la ragione può fornire qualche giustificazione al diritto, in particolare avvalendosi di «assunti deboli» sul «contenuto normativo della costituzione comunicativa di forme di vita socioculturali»; ossia: la ragione laica vede quel che succede nel mondo, ne formula una descrizione preliminare idealtipica, e lo traduce in diritto. Sussistono però due problemi: il primo è che la ragione si riconosce come potenza formale superpartes, e dunque non può entrare nel merito di scelte metafisiche particolari. Essa resta e deve restare neutrale, precisa Habermas, rispetto all'antagonismo tra immagini naturalistiche e immagini religiose del mondo. Il secondo problema è che quella stessa ragione non può fornire motivazioni alla vita politica: nello Stato liberale i cittadini pur essendo consapevoli sul piano cognitivo della necessità del bene comune, possono mantenersi freddi sul piano motivazionale circa l'opportunità di prescindere dai propri interessi individuali.
Quale è dunque la soluzione a simili difficoltà? In realtà il teorema di Böckenförde non trova in Habermas vere eccezioni: Habermas ne propone solo una versione attenuata. Per lui infatti la religione fornisce «una potenza di sostegno», una forza a cui è possibile riferirsi, sul piano motivazionale, anche se non sul piano cognitivo; e d'altra parte la filosofia non deve privilegiare l'immagine scientifica del mondo a scapito di quella religiosa: questa anzi può fornire un correttivo alla tendenziale dominanza, nelle società liberali, di un «agire orientato al successo».
Ecco dunque il motivo dichiarato di incontro tra i due interlocutori. Nelle comunità religiose, al di là del dogmatismo e della «coercizione delle coscienze», scrive Habermas, resta intatto un «contenuto prezioso» a cui lo Stato laico deve riferirsi come risorsa vitale per l'acquisizione dei suoi fondamenti prepolitici. Ciò però non autorizza a teorizzare una sorta di «plusvalore» che acquisterebbero gli intellettuali orientati a difendere la religione rispetto all'intellettuale laico. Piuttosto, suggerisce che la filosofia, nell'ascoltare le ragioni della fede, non si limita al «rispetto» per le altrui convinzioni, ma si colloca in una posizione di partecipe «disponibilità ad apprendere».
È una tesi che piace particolarmente al suo interlocutore, il quale insiste solitamente contro la tiepidezza del «cosmopolitismo religioso», e discute da la tendenza del cosiddetto logos tecnico-scientifico a ridurre il pensiero religioso in una specie di «riserva», vedendolo come rispettabile quanto irrilevante eccezione al pensiero razionale, buona al più per consolare gli umani tecnologici della loro solitudine metafisica. D'altra parte però, continua ancora Habermas, anche la religione dovrebbe aprirsi all'insegnamento della ragione laica, cosicché si tratterà di un «doppio apprendimento», di una reciproca disponibilità all'ascolto. Ratzinger a questo punto è ben volentieri pronto ad accogliere il bouquet di fiori che gli viene teso, e a ricambiarlo: «sono in forte accordo su quanto ha esposto Habermas ... sulla disponibilità ad apprendere e sull'autolimitazione da entrambi i lati».
Perfetto. Tutto dovrebbe procedere ottimamente, con la filosofia che offre contributi cognitivi neutrali e universali al diritto planetario, e la religione che dà contenuti metafisici (rispetto ai quali la ragione filosofica si astiene prudentemente dal giudizio) e offre la forza motivante della vita associata (forza di cui lo Stato può agevolmente avvalersi, senza perdere la sua autonomia). Ma posto che sia così: come dovrebbe mai configurarsi in pratica il «doppio apprendimento» habermasiano? Per esempio, di fronte al problema della definizione di natura umana in stati protoembrionali, il pensiero religioso dovrebbe interpellare la metafisica laica (posto che una simile metafisica esista)? Oppure: di fronte all'eventualità di ammettere le donne al sacerdozio, la Chiesa cattolica dovrebbe adattarsi ai criteri della società civile, che permette alle donne (beninteso: in linea di principio) di svolgere qualsiasi attività? O anche: posto che la Chiesa legittimi l'obiezione di coscienza nel caso dell'aborto, e condanni chi discrimina un operatore sanitario perché si rifiuta di partecipare al delitto, condannerà anche (per amore di coerenza razionale) chi licenzia un funzionario delle carceri in Florida perché si rifiuta di partecipare a un'esecuzione capitale? Correlativamente, posto che il laico debba imparare dal pensiero cristiano, da chi dovrà trarre insegnamento, da Leonardo Boff o dal cardinale Ruini? Da Hans Küng o da Henri de Lubac? Da don Ciotti, o da don Giussani?
Una teoria ingegnosa
In realtà, non sembra che secondo Ratzinger il pensiero tradizionale della Chiesa cattolica abbia qualcosa da imparare, su temi di interesse sociale. «Io parlerei - così si conclude il discorso ratzingeriano - di una necessaria correlatività tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l'una dell'altra e devono riconoscersi l'una nell'altra». Eppure, la ragione che ha ispirato la catechesi di Ratzinger non sembra sia stata una ragione secolare, ma piuttosto la ratio tradizionale della Chiesa, nella sua effettività più antica e intellettualmente stanca, dominata - come si dice - dalla paura della libertà e della novità più che dal coraggio della carità.
Giancarlo Bosetti nella sua introduzione offre una spiegazione a questa evidente non-consequenzialità: «la bivalenza dell'ex Prefetto della fede sarebbe inspiegabile solo agli occhi di chi non riesce a distinguere tra la dimensione dottrinaria del cattolicesimo e la dimensione pubblica del discorso dei cristiani in quanto partecipi di una 'polifonia' che è quella della vita sociale». È una teoria della doppia verità, per così dire, che è senza dubbio ingegnosa. Ma non so quanto lo stesso Ratzinger possa avallarla: è essa stessa, peraltro, una teoria profondamente laica; per un credente, che dovrebbe vivere il dogma e non teorizzarci sopra, la distinzione tra «dimensione dottrinaria» e vita non può funzionare: per esempio come potrà un credente che si trova a non poter condividere sul piano dottrinale le teorie del suo papa infallibile, partecipare alla messa e al rito dell'eucarestia senza inquietudine, perplessità e imbarazzo?
In ogni caso, il principio formale stabilito da Habermas fa acqua da tutte le parti: la questione in gioco non è certo una questione di buona volontà e apertura reciproca. Questo stesso principio peraltro non spiega certamente né dissolve il legame strutturale e storico tra integralismo religioso e violenza terroristica che preoccupa Ratzinger («incute paura il fatto che il terrorismo si legittimi, almeno in parte, con ragioni morali»), e neppure l'alleanza attuale mondiale tra le forze della destra liberista e il tradizionalismo cattolico (che verosimilmente non lo preoccupa affatto). Quale religione e quale pensiero laico dovrebbero confrontarsi? E che cosa realmente avrebbero da imparare l'uno dall'altro?
Il fatto è che Ratzinger è intimamente persuaso che ci sia poco o nulla da imparare, al di fuori del cattolicesimo. Su questo punto si gioca la vera divergenza con il suo interlocutore, ed è una divergenza filosofica, che configura Habermas come un pensatore moderno, tipicamente kantiano, e Ratzinger come un pensatore antico, anche se forse in qualche modo più vicino agli anacronismi del pensiero globale (e alla sua razionalità «postsecolare»).
Per Habermas infatti ragione e religione sono e devono mantenersi distinte, anche se le forme di vita ispirate alla fede non sono di per stesse «irrazionali», ma per Ratzinger, come per i padri della Chiesa, non è affatto così. «Vi sono nella religione patologie estremamente pericolose, che rendono necessario considerare la luce divina della ragione, per così dire, come organo di controllo, muovendo dal quale la religione deve necessariamente farsi purificare e ordinare continuamente». L'indizio essenziale è che la ragione è «luce divina»: dunque a ben guardare la limitazione è un'autolimitazione. Mentre per Habermas «il discorso secolare e il discorso religioso, dipendente dalle verità di fede» vanno distinti, e il presupporre questa distinzione è una delle condizioni per garantire la pace sociale, per Ratzinger c'è una sola ragione, che si manifesta identicamente nei laici e nei cristiani, salvo sperimentare in più, nel secondo caso, le dolcezze dell'amore di Dio, e la gioia razionale della completezza della verità.
L'affinità sostanziale di Illuminismo e Cristianesimo (un punto di vista quasi-hegeliano, anche se Ratzinger teme fortemente Hegel, in cui vede il padre dei padri del comunismo) è svolta in varie opere dell'attuale pontefice, e in particolare in un libro molto consigliabile, in cui si capiscono bene i percorsi argomentativi di questo papa: Fede, verità, tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo (Cantagalli, Siena, 2003, naturalmente ripubblicato nel marzo di quest'anno). Ma se così è, se la ragione è una e si esprime come laicità e verità divina, non si tratta affatto di reciproca limitazione e doppio apprendimento, bensì di un esercizio unilaterale dell'intelligente cattolico, che pone rimedio da sé ai propri eccessi ed errori. E se ascolta il discorso laico, non è per imparare ma per vedere dove il suo antagonista sbaglia, e porre rimedio ai suoi errori epocali.
Sembra che Habermas, insistendo sull'astensione della filosofia su temi metafisici sul «debole contenuto normativo» delle ricostruzioni filosofiche, non offra alternative davvero rilevanti per un pensiero religioso in ascolto. Come dire: non c'è da sorprendersi se la religione ascolta poco, visto che c'è ben poco da ascoltare, almeno e se la ragione filosofica si autodescrive così. Questa ragione neutrale e disarmata, un po' saccente ma priva di potere motivante, piace in fondo a Ratzinger perché gli consente comunque di coltivare segretamente l'idea del plusvalore dell'intellettuale religioso (uomo di contenuti, oltre che di forme). Ed è questo il vero e non dichiarato punto di convergenza tra i due autori. D'altra parte, però, la sfida allora si ripropone per lo stesso Ratzinger. Sarà davvero pronto Habermas o chi per lui ad ascoltare di buon grado la metafisica e la sociologia della catechesi ratzingeriana, con le sue idee sulle donne, la persona umana, la guerra e l'ordine mondiale? Come si vede, le condizioni per il doppelter Lernprozess sono scarse o nulle, da entrambe le parti.
Poco da imparare e molto da fare
C'è chi ritiene, però, che l'incontro tra ragione e fede non sia affatto formale, ma sostanziale, e che ci possano essere principi laici che sono perfettamente condivisibili dal pensiero religioso, specie di stampo cristiano. Per esempio, Asor Rosa ha ricordato recentemente il più noto e classico: la solidarietà con gli oppressi, la difesa dei poveri e dei deboli. Suscita un certo imbarazzo tra i credenti un pontefice che si fa presentare il libro da chi, come Marcello Pera, crede, ripete e ribadisce che queste idee sono «la retorica politically correct». Può ripeterlo a Joseph Ratzinger, forse, ma non a chi soffre sulla sua pelle o vede le discriminazioni e le ingiustizie subite dalla parte più debole della società e del mondo (peraltro il giovane Ratzinger che attirò l'attenzione di Paolo VI scriveva: «Dio, attraverso l'intero processo storico, non è mai stato dalla parte delle istituzioni, ma sempre dalla parte di chi soffre, dei perseguitati»). Un altro principio semplicemente razionale che la ragione cristiana dovrebbe essere pronta a condividere è che la difesa della vita umana diventa impraticabile là dove non c'è più vita umana: se dunque si logorano le condizioni del futuro, se si disperdono le risorse del pianeta, non ci sarà più vita da difendere. Molte altre idee, del tutto laiche, immanenti, «secolari», legano il Cristianesimo alle esigenze del mondo attuale, facendone una religione particolarmente adatta alla compatibilità con un pensiero razionale semplicemente consapevole del presente.
Ma questo è solo un punto di partenza, e non dice ancora nulla sulle scelte effettive che laici e cattolici potrebbero in seguito insieme intraprendere, se mai alla luce dell'unica ragione che dovrebbe illuminare gli uni e gli altri. È solo un punto di partenza, ma forse già permette di capire che c'è poco da imparare e molto lavoro filosofico da fare, dall'una parte e dall'altra.