sabato 9 luglio 2005

Spoletoscienza 2005

il manifesto 9.7.05
Verso il futuro, cavalcando su una cometa
«Alterando il destino dell'umanità» è il tema dell'edizione di Spoletoscienza che si apre oggi nel chiostro di San Nicolò. Con le relazioni di John Barrow, Arthur Ekert e Harold Dimbleby. Domani, tavola rotonda con Paolo Fabbri, Mauro Ceruti, Remo Bodei e Piero Corsi su «L'estensione dell'umano»
FRANCO VOLTAGGIO

Il Barone di Munchausen, nel celebre romanzo di Rudolph Erich Raspe (1737- 1794), cavalca a grandissima velocità su una palla di cannone, lasciandosi alle spalle prati, campagne, villaggi e con questi le tracce di un deplorevole passato fatto di ignoranza, superstizioni, oppressione. A suo modo, Raspe dà veste letteraria alla speranza dell'Illuminismo, la fiducia che le magnifiche sorti e progressive della scienza restituiranno all'uomo - ma l'aveva mai realmente posseduta? - il possesso della ragione e sconfiggeranno ogni sorta di mali. Segue puntualmente la delusione, ché il Secolo dei Lumi si chiude all'insegna di «trionfale sventura», frammezzo a interminabili guerre e all'amarezza per una grande rivoluzione, quella francese, sostanzialmente fallita. Parrebbe allora che non convenga sperare e realisticamente rassegnarsi alla piatta volgarità delle cose. Solo che quel che è non è certamente quel che dovrebbe essere e che, proprio per questo, dovrebbe impegnarci a farlo essere. Di qui il dovere di muoversi illuministicamente sul versante della speranza a condizione, tuttavia, di coniugarla con la perplessità e la riflessione. E', questa, a nostro parere, l'ispirazione di fondo di «Spoletoscienza 2005», «Alterando il destino dell'umanità», organizzata dalla Fondazione SigmaTau di Roma, che si inaugura oggi a Spoleto, nel Chiostro di San Nicolò, con una relazione di John Barrow - Ma non sarà che il nostro destino corre a cavallo di una cometa? - seguita da quelle di un fisico, Arthur Ekert esperto in nano-tecnologie e quantum tecnologie, e di un informatico, Harold Dimbleby. Questa prima tornata si conclude domani con una tavola rotonda, L'estensione dell'umano, con Paolo Fabbri, Mauro Ceruti, Remo Bodei e Pietro Corsi. La seconda tornata, che occupa il secondo fine settimana di luglio, vede impegnati, il sabato 16, medici e biologi (Aubrey de Grey, Gregory Stock, Giuseppe Macino, Giulio Cossu, Claudio Franceschi) sul tema dell'Homo novus, una nuova specie umana destinata a vivere più a lungo e a modificare, in forza delle biotecnologie, il destino genetico dei singoli. Domenica 17 una seconda tavola rotonda, con Gilberto Corbellini, Giulio Giorello, Sherwin Nuland, Stefano Rodotà e Giulio Tremonti, I dubbi dell'etica, i costi dell'economia, le scelte della politica, riassume, in via conclusiva, il senso delle due tornate e azzarda proposte e conclusioni. Non manca, come è già accaduto l'anno scorso, una drammatizzazione dell'evento ad opera dell'attore Massimo Popolizio. A 100 anni dalla morte di Jules Verne, Popolizio realizzerà, sabato 9 e sabato 16, un recital di letture, Ventimila leghe sopra il cielo, un titolo che si rifà, rinnovandola e modulandola su un futuro ormai prossimo, all'ispirazione avveniristica di Ventimila leghe sotto il mare.

«Alterando il destino dell'umanità» sembra gettare un'ombra di sospetto sui cambiamenti attesi e, almeno parzialmente, già in atto, dalle acquisizioni di talune scienze e dalla loro immediata ricaduta tecnologica, ché, in effetti, «alterare» il destino dell'uomo parrebbe preludere a una trasformazione in negativo della nostra specie. In parte, forse, è così, ma, in parte, non lo è. Vediamo perché.

Per cominciare «alterare» l'uomo può anche significare renderlo «altro» da ciò che è oggi, più abile a governare la realtà esterna, a migliorare la sua esistenza, più capace di prevenire e curare le malattie, in grado di vivere più a lungo e di ribaltare la sua stessa sorte genetica che, talora, in molti individui e popolazioni del pianeta, ha tutta l'aria d'essere, se non una morte, quanto meno una sciagura annunciata. Per rendercene conto può essere utile interrogarci, come fa Ekert (Noi robot. Il destino polverizzato delle nano e quantum tecnologie) sullo stato attuale delle nostre possibilità di comunicazione affidate al linguaggio, ai media, alla rete informatica. Tutto quello che oggi possiamo fare è il tentativo di carpire informazioni, e magari con un enorme sforzo computazionale, una fatica che può essere evitata costruendo computer sempre più sofisticati. Come? Affidandosi ad una tecnica che, avverte Ekert, non consiste tanto nella riduzione alle minime dimensioni dell'hardware, quanto nell'applicazione tecnologica degli assunti di base della meccanica quantistica. Senza entrare in dettaglio, va notato tuttavia che, come ci dicono le ricerche pionieristiche delle neuroscienze, i nostri circuiti nervosi sono fondati su principi quantistici. Computer dotati di questo livello di sofisticazione sono, per ciò stesso, più naturali di quelli cui siamo abituati, il che, in concreto, implica la possibilità di espandere al massimo (e di espanderle in modo naturale) le nostre abilità di cogliere e di elaborare informazioni. In definitiva, calcolando le migliaia d'anni che il sapiens ha richiesto per sviluppare il linguaggio e il pensiero verbale, siamo alle soglie di una svolta epocale. L'uomo nuovo, promessoci da Ekert, sarà in grado di comunicare meglio e i nuovi computer ne faranno una sorta di novello robot e forse si eliminerà così quello speciale servaggio della natura umana che, come dice Isaac Asimov in Io, robot, fa dell'uomo un essere debole, imperfetto, anche se capace di amore e di poesia, del tutto inferiore ai robot da lui stesso creati. Come un tempo il ramo d'albero fu la protesi di cui si valse l'uomo per prolungare le possibilità delle sue deboli braccia, così i nuovi computer saranno il prolungamento del suo pensiero. Parafrasando il celebre invito che Hobbes formula nel Leviathan, «facciamo l'uomo nuovo», verrebbe fatto di dire «facciamo il nuovo robot». Ci attende una sfida che, se fronteggiata senza temperare il furor tecnologico con la responsabilità e il dubbio fecondo, potrebbe cacciarci in un mare di guai. Ma, a pensarci bene, il sapiens non ha già corso questo rischio, quando ha inventato il fuoco? In conclusione, magari gettando un po' d'acqua sul fuoco, ci sentiremmo di condividere l'ottimismo di cui, seguendo Ekert, dà prova Thimbleby nel suo discorso sulle ampie possibilità dell'informatica futura (Nella tela del ragno: il futuro del web).

Il futuro garantito dalle nuove scienze induce certamente qualche preoccupazione in più in quanto ad esser tema di indagine è un'evoluzione, non più affidata alla natura, ma decisamente autogestita dall'uomo. Se, infatti, con tutte le cautele possibili, non possiamo che plaudire alla possibilità di Riparare o ricostruire i nostri organi (Cossu), di operare il controllo dell'espressione genica (Macino) - il che non significa necessariamente programmare pargoli biondi dagli occhi azzurri- di andare in direzione di un miglioramento genetico (Stock) - cosa che non ha nulla a che fare con l'eugenetica nazista -, ci chiediamo se dobbiamo essere soddisfatti della possibilità teorica dell'immortalità (de Grey: Strategie per l'immortalità: il concetto di escape velocity) o, più modestamente, della possibilità assai più concreta di superare e di gran lunga l'attuale attesa di vita alla nascita (Franceschi: Verso una società di centenari).

Per quanto concerne l'immortalità, immortali lo siamo già nel pensiero. Le persone di media cultura conoscono o almeno intuiscono il significato di «anno luce», una dimensione temporale che certamente si avvicina all'immortalità. Quanto alla longevità, sempre con il pensiero andiamo ben oltre le centinaia d'anni che le più attendibili previsioni ci promettono: sappiamo che, tra un milione d'anni il Mediterraneo sarà un orribile lago salato, tra 5 l'acrocoro etiopico sarà poco più che un ricordo, tra 50 le Alpi saranno modeste collinette, tra cinque miliardi e mezzo di anni l'universo scomparirà, ecc. Allora perché passare dalla pensabilità alla realizzazione? Ove queste aspettative dovessero realizzarsi, saremmo espropriati di due dimensioni che, almeno sinora, hanno dato senso al nostro vissuto, il tempo e la morte: se, come dice Platone nel Timeo, il tempo è l'immagine mobile dell'eternità, superando il tempo dei tempi, finiremo con lo smarrire quel tanto di eternità che abbiamo già; senza la morte, dimenticheremmo d'esser mai nati. Ma forse ragioniamo così perché abbiamo paura e non c'è dubbio che questo è un affetto che conduce in un vicolo cieco.

Allora che fare? Proviamo, per una volta, a muoverci come fanno gli scienziati inglesi (non a caso la Sigma Tau ne ha invitato una folta pattuglia) e il lettore è invitato perentoriamente a pensare che il nostro non è un omaggio, non meno melenso che di circostanza, a quelle che i fascisti chiamavano la «perfida Albione». Si tratta di ben altro. Il way of thinking dello scienziato inglese si compendia in poche, essenziali norme: lasciarsi andare all'immaginazione; controllarne gli esiti; passare dall'entusiasmo alla perplessità con metodo; divulgare nel modo meno criptico possibile i contenuti scoperti, fornendo indicazione ai politici perché questi disegnino gli scenari adeguati ad ospitarli. Semmai c'è da chiedersi: saprà farlo la politica? Una bella domanda, davvero.