L'Unità 26 Aprile 2005
Calipari, per gli Usa ha sparato un solo soldato
Il Pentagono: la raffica dei colpi partita dallo stesso uomo che con l’altra mano ha sollevato la torcia
Negli atti della commissione congiunta le tesi care al Pentagono, che conferma: nessun procedimento contro i nostri soldati. Il contrasto con gli italiani
«Non c’è stato agguato: tutta colpa di Calipari»
Gli americani si assolvono
Andrea Purgatori
ROMA L'inchiesta della Commissione congiunta Usa-Italia sulla uccisione di Nicola Calipari è conclusa. Niente affatto condivisa nella parte finale delle valutazioni e condivisa invece nel capitolo dei fatti o della somma dei fatti. Anche se, dal punto di vista italiano, limitatamente alla constatazione che si tratta di un assemblaggio tecnico di dati non omogenei, che semmai ribadiscono l'esistenza di una doppia ricostruzione non convergente dell'incidente.
I fatti propongono rivelazioni sconcertanti su ciò che è accaduto la sera del 4 marzo scorso.
Una su tutte. Secondo il Pentagono, a sparare contro la Corolla su cui si trovavano la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, l'agente C del Sismi (al volante) e il direttore della Divisione Operazioni all'estero, sarebbe stato uno solo dei militari in servizio al Checkpoint 504 sulla strada dell'aeroporto. Un soldato che, con la sinistra, ha alzato e acceso un faro che ha accecato la Corolla e, con la destra, ha fatto partire una raffica dal fucile mitragliatore. Dunque, niente avvisi luminosi dai sette mezzi militari dislocati al posto di blocco, nessun reticolato di filo spinato, come normalmente avviene per segnalare i checkpoint della coalizione, ma solo una grossa torcia elettrica del peso di circa tre chilogrammi accesa all'improvviso e poi gli spari. La giustificazione americana per il «fuoco amico» poggia tutta sulla velocità attribuita alla Corolla. Secondo il Pentagono, 50 miglia orarie ovvero 80 chilometri l'ora (con regole d'ingaggio che prevedono una prima segnalazione di alt a 130 yard e, in caso di mancato arresto, l'apertura del fuoco contro il vano motore del veicolo a 65 yard). Una versione contestata dagli italiani, anche sulla base della testimonianza dell'agente C del Sismi, il quale ha affermato che la velocità «non poteva essere superiore a 40/45 chilometri l'ora» anche perché si trovava a metà di una curva e ha «arrestato il mezzo nello spazio di uno, due metri». Ma in quel momento il fuoco era stato già aperto. Dice ancora l'agente C: «Mentre frenavo ho udito l'esplosione di numerosi colpi di arma da fuoco...ho avuto la sensazione che a sparare fossero diverse armi automatiche». Sulla bassa velocità concorda anche il verbale di Giuliana Sgrena. L'agente C è un ufficiale che aveva fatto quella strada decine di volte, anche con altri ostaggi appena liberati. A operazione conclusa e a 600 metri dall'aeroporto, non avrebbe avuto alcun motivo di forzare un posto di blocco alleato.
Anche sul numero dei proiettili sparati non si va molto al di là delle ipotesi. Una dozzina, sulla base del conteggio dei fori sull'auto effettuato dagli americani (vetri esclusi, sono andati in pezzi), che però secondo gli italiani sembrano esplosi da direzioni diverse. Il fatto è che l'auto è stata sì esaminata dai componenti della Commissione, ma la perizia balistica è stata effettuata dai soli esperti americani, per giunta su una scena purgata di tutti i possibili riferimenti necessari a stabilire traiettorie dei proiettili e posizione dei mezzi. L'esame della «scena del crimine» è uno snodo che ha creato grande attrito. Già nella notte della sparatoria, gli americani avevano provveduto a ripulire la strada e a rimuovere i mezzi militari coinvolti, rendendo impossibile una ricostruzione condivisa dei fatti. I successivi sopralluoghi sono stati virtuali e anche rischiosi (in un caso, da un cavalcavia è stata lanciata una granata sugli esperti, che ha ferito un americano a una gamba e solo per un caso non ha provocato altre vittime).
Per capire come stanno le cose sul piano tecnico/diplomatico, bisogna ricordare che la decisione di associare gli italiani all'inchiesta (il ministro plenipotenziario Ragaglini e il generale Campregher) è stata presa quando già era partita l'indagine del Criminal Investigation Detachment della terza Divisione di fanteria dell'esercito degli Stati Uniti in base alla procedura 1/56, un protocollo investigativo militare molto rigido che lascia pochissimi spazi di manovra. Nell'interrogatorio di un militare, ad esempio, la sequenza delle domande è prestabilita e, in caso di risposta insufficiente o di incomprensioni conseguenti alla sua formulazione, non è possibile ripetere il quesito.
Di fondo c'è poi da registrare il braccio di ferro interno all'amministrazione americana. Il Dipartimento di Stato, su sollecitazione della Casa Bianca, avrebbe preferito chiudere la faccenda la notte stessa della sparatoria con la formula del «tragico incidente» e tante scuse. Anche la Cia era schierata su questa linea (si appresta infatti a consegnare una medaglia alla memoria a Nicola Calipari).
Il Pentagono invece ha dovuto tenere conto degli umori delle proprie forze dislocate sul campo. E la gestione da parte americana della Commissione (affidata ai generali Vines e Vangjiel) è stata tutt'altro che tenera. Ne sa qualcosa Giuliana Sgrena. Quando l'hanno interrogata, hanno cercato di metterla in difficoltà sostenendo che non era in una situazione psicologicamente favorevole o che senza occhiali non aveva potuto vedere come erano andate le cose. Salvo sentirsi replicare con determinazione dalla giornalista del Manifesto: «Ero perfettamente lucida e ci vedevo benissimo».
La Commissione italiana ha formalmente chiesto che al comportamento di Nicola Calipari, che ha protetto Giuliana Sgrena col proprio corpo salvandole la vita, fosse attribuito nella relazione l'aggettivo «eroico».
Il risultato, l'effetto che una conclusione condivisa nei fatti ma non nelle valutazioni (opzione A) piuttosto che un freddo comunicato nel quale si dà conto della fine delle indagini congiunte e basta (opzione B, che gli americani vorrebbero evitare a ogni costo), sta nell'esiguo margine di mediazione politica rimasto tra Roma e Washington. Ma il Pentagono, già ieri sera, ha fatto sapere che in ogni caso i militari americani «non sono imputabili» perchè hanno «rispettato le consegne» e quindi e nei loro confronti non ci sarà alcun procedimento disciplinare.
Da parte italiana, il lavoro collaterale di sostegno alla Commissione, ha portato alla preparazione di un dossier nel quale viene documentata dall'aprile 2003 a oggi la morte di centinaia di persone (in gran parte civili iracheni, anche donne e bambini) uccise ai checkpoint americani in situazioni analoghe a quella in cui ha perso la vita Nicola Calipari. Sulla necessità di andare in fondo a questa storia, alleanza o no, la struttura militare e dei servizi segreti che opera in Iraq è compatta e si aspetta dal governo italiano che la politica non faccia sconti alla verità dei fatti. Niente di più, niente di meno.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
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