lunedì 27 marzo 2006

Europa , quotidiano, sabato 25 marzo 2006
ARTE: CRITICI E STORICI ALL’UNIONE
Prima di tutto ribaltare il vecchio “centralismo” della sinistra. Meno Ministero ma anche meno mostre, e invece più committenza pubblica, per il riscatto artistico del degrado, più investimenti lungimiranti, su musei e collezioni che produrranno risultati anche per generazioni a venire.
di Simona Maggiorelli

Ormai è fatta. La legislatura è finita. E i danni lasciati sul campo sono palesi. Quello che una volta, sciaguratamente, Gianni De Michelis indicava come il petrolio d’Italia , ovvero i beni culturali, sono stati abbondantemente saccheggiati e svenduti. Grazie a invenzioni di “finanza creativa” come la Patrimonio spa, ai condoni, ma anche grazie al famigerato Codice dei beni culturali varato dal ministro Urbani. Senza dimenticare poi i danni prodotti dai tagli dei finanziamenti pubblici. Tagli drastici perfino del settanta per cento dei trasferimenti nell’ultima finanziaria di Tremonti che hanno colpito gli anelli più deboli del sistema dell’arte: gli archivi, le soprintendenze territoriali, i centri d’arte contemporanea. Portando molti enti sull’orlo della chiusura, mentre il ministro dei Beni culturali Rocco Buttiglione minacciava le dimissioni, guardandosi bene dall’attuarle. Di fronte al sacco, poche le voci limpide che si siano levate contro. Pochissime fra i politici. Molte fra gli intellettuali e storici dell’arte, voci competenti, ma rimaste a lungo inascoltate e che, ora - chiamate a dare consigli al centrosinistra in vista delle elezioni - si levano qualche sassolino dalle scarpe. Le politiche per i beni culturali del centrosinistra “Un disastro”, denuncia Lea Vergine, firma di spicco della critica d’arte più engagé. “La “sinistra”- dice – continua a dimostrare totale incompetenza preferendo politici e burocrati a studiosi e intellettuali alla guida delle istituzioni pubbliche. Con il risultato che tutto il sistema dell’arte italiano è andato ingessandosi, perdendo di vitalità di slancio”. Basta guardare cosa accade a Milano, prosegue l’autrice de L’arte in trincea (Skira) e di libri chiave, che hanno appassionato all’arte contemporanea e alla ricerca molti giovani. “La città non è più fucina di produzione culturale e d’innovazione. E ad averla ridotta in questo stato - dice - non è stato solo il centrodestra. I guai per l’arte italiana - accusa Lea Vergine - sono cominciati già quando era ministro dei Beni culturali Giovanna Melandri e temo che il centrosinistra non abbia ancora imparato la lezione se ha preferito candidare a sindaco un ex prefetto scartando architetti e intellettuali”. Ma che il centrosinistra debba fare autocritica riguardo a arte e tutela dei beni culturali lo va dicendo da tempo anche Salvatore Settis, ex advisor del ministro Urbani all’epoca della prima stesura del Codice e che ora, in giro per l’Italia, in affollate presentazioni del suo libro Battaglie senza eroi (Electa) denuncia l’ulteriore aggravamento della situazione causato dalla gestione Buttiglione, lo scandalo di Fondazioni in mano a direzioni incompetenti, ma ricordando anche che alcuni mali culturali di oggi affondano le radici nelle politiche dell’allora ministro Melandri, responsabile secondo il professore, di una gestione dei beni culturali “tutta di vertice, che ha affollato i corridoi del ministero romano lasciando del tutto sguarnite a abbandonate a se stesse le soprintendenze territoriali”, quelle istituzioni locali, cioè, che svolgono un ruolo primario nella tutela e nella valorizzazione del diffuso patrimonio artistico italiano. Ma di estromissione di critici e storici dell’arte dai gangli della politica e dai ruoli di comando, a tutto favore di manager e burocrati parla anche l’ex direttrice della Gnam di Roma, Sandra Pinto,, che in un libro inchiesta Gli storici dell’arte e la peste, in uscita ad aprile per Electa, fa una diagnosi di “mostrite” come sindrome acuta che negli ultimi anni ha colto molte amministrazioni pubbliche nostrane. “Più che di vera politica culturale - dice Pinto - a fare la parte del leone sembra essere un vacuo culto dell’immagine, in una continua rincorsa a finanziare mostre a scopi esibizionistici e di scarso valore scientifico”. Piuttosto che fare investimenti lungimiranti, su musei e collezioni pubbliche, che produrranno risultati anche per le generazioni a venire, si preferisce l’usa e getta di mostre che diano un immediato ritorno d’immagine sui giornali, per quanto effimero. Anche se poi le cifre delle presenze di pubblico non appaiono incoraggianti, come si legge dai bilanci delle mostre del 2005, con un milione e mezzo di visitatori in meno rispetto al 2004 e solo 19 mostre (in testa Monet e la Senna, la Biennale di Venezia e I capolavori del Guggenheim) con più di 100mila visitatori. “In questo proliferare di mostre locali, piccole e di scarsa rilevanza culturale - commenta Achille Bonito Oliva – la tecnica è quella di utilizzare un grosso nome, ad esempio Caravaggio per squadernare poi solo opere molto minori”. Ma la colpa non è tutta dei politici, secondo il più eccentrico, ma anche il più prolifico dei critici italiani, da sempre riottoso a chiudersi nella torre d’avorio di studi separati dalla realtà. “Accanto a enti che praticano una politica culturale miope e appiattita sul già esistente - dice - ci sono anche amministrazioni sensibili che investono in progetti produttivi di arte pubblica”. Qualche esempio? “Tanti, Gibellina, Napoli, città con molti problemi, ma che svolgono un’importante ruolo di committenza pubblica chiamando critici e artisti a intervenire in zone degradate, in quartieri anonimi”. Come quello di Napoli dove è sorto “Il museo necessario”, un grande museo nella metropolitana che con un centinaio di opere di artisti emergenti dà una nuova identità a un “non luogo” di passaggio. Ma di esempi di strutture per l’arte contemporanea nate con molto coraggio e che potrebbero funzionare da esempio, rilancia, Achille Bonito Oliva ce ne sono sempre di più in Italia. “Dal Castello di Rivoli, al Mart di Rovereto, al Macro di Roma - dice -, senza dimenticare una rete di gallerie e di kunsthalle giovani che vanno dalla GameC di Bergamo a Quarter di Firenze, al Man di Nuoro e che, in assenza di politiche statali a supporto delle nuove generazioni svolgono un lavoro culturale importantissimo nel lanciare e sostenere i giovani artisti”. “La politica dovrebbe tornare a riflettere sul valore civile e sociale che ha l’arte e la ricerca in genere - rilancia Sergio Risaliti, direttore del Quarter di Firenze -. Settori strategici per la formazione, per lo sviluppo del paese. Anche per costruire una nuova e più aperta cittadinanza. Perché i progetti d’arte oggi sono sempre più internazionali e studiare l’arte dà una grande lezione di tolleranza, aiutando ad abbattere barriere culturali e pregiudizi. Per questo - conclude il curatore del più importante centro d’arte contemporanea fiorentino - la missione di chi lavora in questo settore è sempre eminentemente pubblica. E una seria politica di centrosinistra non può e non deve dimenticarlo”.