sabato 15 marzo 2003

il manifesto 15.3.03
La melanconia e la sua maschera perversa
ALBERTO LUCHETTI

Nessun legame sembrerebbe unire melanconia e perversione, l'inibizione di ogni piacere dalla ricerca compulsiva di una fonte di godimento. Eppure, entrambe queste patologie rivelano una difficoltà di amare: nella melanconia è in gioco il ritiro di ogni investimento libidico, nella perversione sembra realizzarsi una forma erotica dell'odio. L'altro è comunque relegato a una dimensione impersonale, disanimata e fuori dal tempo. Se il perverso allontana la realtà perché troppo angosciosa, il melanconico soffre per una realtà che non lo contempla. Il risultato è comunque un ingabbiamento di se stessi, che corrisponde alla percezione di qualcosa di morto dentro di sé
L'accostamento tra melanconia e perversione - tema della giornata di studio organizzata dall'Associazione «Squiggle» e introdotta da Valdimiro Pellicanò, che riunisce oggi a Pisa numerosi esponenti della Società psicoanalitica italiana - può meravigliare, a meno che non si assumano i due termini in senso molto lato, se se ne considerano le abituali descrizioni psicopatologiche. «La melanconia», scriveva Freud, che finì col ritenerla una nevrosi narcisistica, «è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell'interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall'inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell'attesa delirante di una punizione». Non diversamente, anche l'attuale nosografia psichiatrica, che considera la melanconia come possibile complicazione di un episodio depressivo, ne individua le manifestazioni salienti in un'indifferenza per gli stimoli fino a quel momento piacevoli, in un marcato rallentamento motorio e in una destrutturazione della temporalità nella quale il passato occlude il presente e preclude un futuro, in disturbi dell'alimentazione e del sonno, in sentimenti di colpa e di svalutazione di sé eccessivi e inappropriati, in idee di morte o suicidarie. Cosa potrebbe essere più lontano da questa condizione melanconica se non l'attiva e talvolta compulsiva e impulsiva ricerca del piacere da parte di un perverso? Laddove si intenda, appunto, la perversione in senso stretto, ossia come l'insieme di comportamenti sessuali contraddistinti da anomalie nel raggiungimento del piacere, deviato rispetto a una qualsiasi norma, così come rispetto alle finalità biologiche. Un piacere che è legato alla variazione dell'oggetto sessuale e delle modalità del rapporto, ma soprattutto è rigidamente vincolato e subordinato ad alcune condizioni estrinseche particolari, che possono andare dal feticismo al travestitismo, dal voyeurismo all'esibizionismo, al sadismo, al masochismo: atteggiamenti che realizzano concretamente alcune scene fondamentali intorno a cui è organizzata la vita fantasmatica della persona. Già a un primo sguardo, tuttavia, alcune pratiche perverse rivelano una difficoltà ad amare analoga a quella del melanconico, se non addirittura una forma erotica dell'odio, come ha sostenuto Robert Stoller nel suo Perversion: The erotic form of hatred (Pantheon Books, New York, 1975). Ma l'accostamento tra melanconia e perversione appare altrettanto sorprendente se si pensa al divario che separa la monotonia iconografica della prima dalla poliedricità e variabilità delle rappresentazioni delle attività e degli scenari perversi, refrattari a ogni tentativo di repertoriarli esaustivamente. La melanconia è tradizionalmente rappresentata - prima e dopo la celebre incisione di Dürer - nelle vesti di una donna immobile, seduta e in qualche caso dormiente, con la testa reclinata appoggiata a una mano talvolta chiusa a pugno, dal volto indifferente o cupo e rabbioso, e dallo sguardo fisso davanti a sé, ma incurante di ciò che le sta intorno, assorta in pensieri e fantasmi, sospesa tra riflessione, dolore e smarrita disperazione. Mentre le perversioni sono affidate a rappresentazioni cangianti ed estremamente varie, sia nella letteratura classica come nei molteplici riferimenti di cui abbondano racconti e film d'oggi. E questo nonostante la ripetitività, fin nei minuti particolari, degli scenari prediletti dai personaggi - tanto eterosessuali che omosessuali - nella loro ricerca imperativa e spasmodica di forme di eccitamento e di piacere che non tollerano deviazioni e dilazioni. Benché abbiano spesso il sapore di una combinatoria di elementi fondamentali, queste variazioni riflettono la singolarità della vita fantasmatica dell'essere umano che, a partire dalla «perversione polimorfa» (come la definì Freud) della sessualità infantile e pulsionale, sempre si organizza in una drammaturgia idiosincrasica, talvolta particolarmente elaborata. Del resto, proprio per la difficoltà di stabilire tanto una norma quanto i confini con la patologia, c'è chi - come Joyce McDougall (in Eros. Le deviazioni del desiderio, Cortina, 1997) - preferisce parlare di «neosessualità», cioè di una reinvenzione (obbligata) dell'atto e delle relazioni sessuali, limitando il termine perversione solo ai rapporti imposti a un partner non consenziente. In realtà, mentre a tutta prima il rapporto tra melanconia e perversione sembrerebbe dover essere più di opposizione che di congiunzione, un secondo sguardo rivela una più complessa articolazione, alla quale sembrano alludere i titoli delle relazioni che Patrizia Cupelloni, Anna Nicolò e Lucio Russo terranno oggi a Pisa.
Per cercare di evidenziare alcuni snodi possiamo partire proprio dalla famosa incisione di Dürer che, come indicano Klibansky, Panofsky e Saxl nel loro celebre saggio su Saturno e la melanconia (Einaudi), costituisce un vero e proprio «autoritratto spirituale» del pittore. Nel solco della teoria di Marsilio Ficino, Dürer infatti unisce pittoricamente nel personaggio centrale due figure, la Geometria e la Melanconia, la raffigurazione dell'ars geometrica con quella di un homo melanconicus, «l'una che incarna l'ideale allegorizzato di una facoltà mentale creativa, l'altra che è l'immagine terrificante di una condizione di spirito distruttiva», elevando la figura allegorica della Melanconia al livello di un simbolo che combina l'esercizio intellettuale con la capacità di sofferenza dell'anima umana. Certo, la scelta della Geometria tra le sette arti liberali, come indicano i tre studiosi, dipende dal fatto che per il pittore essa era la base di ogni scienza e filosofia, nonché dal legame che la tradizione aveva stabilito tra essa e Saturno, il pianeta che nelle convinzioni dell'epoca poteva favorire sia il sapere che la follia. Tuttavia la Geometria è scienza della misura, arte del misurare: mostrando come le potenzialità creative dell'essere umano attingano alla stessa fonte dell'impotenza e dello sgomento di fronte alla vanità della vita, Dürer sembra segnalare questa comune sorgente nella sua natura di «animale misurante», perché parlante. Proprio la misura è un aspetto centrale sia nella melanconia che nella perversione. Mentre quest'ultima è intrinsecamente sovversiva - poiché tenta di spostare il limite di ogni norma, poiché essa è negazione (ma per ciò stesso anche riaffermazione) di ogni misura e dunque di ogni differenza nell'ambito della sessualità - la melanconia assume come propria misura un ideale assoluto, una dismisura rispetto alla quale può identificarsi soltanto con il niente: «Io non sono niente» è infatti l'emblema del discorso melanconico. Perciò Freud affermava che nella melanconia la coscienza del soggetto è accaparrata dall'ideale, che parla in nome di Io: potremmo anzi dire che Io può essere e parlare solo lasciandosi irrigidire ed esautorare da questo ideale, che con la sua ombra lo riduce a un niente; al tempo stesso, però, resta sempre sull'orlo dell'angoscia che si scatenerebbe dall'incrinarsi di questa fragile e alienante cornice identificatoria.
Sia melanconia che perversione finiscono dunque con il denunciare l'illusione dell'identità: di quella sessuale e sessuata, quando è in gioco la perversione, di quella derivata dall'abbaglio di ogni ego, dall'evanescenza di ogni discorso, dalla vanità di ogni attività quando è in gioco la melanconia. Dietro l'insistente inibizione melanconica e la compulsiva disinibizione perversa affiorano così angosce di frammentazione, di smembramento, di perdita dei confini del proprio corpo, di inesistenza o di irrealtà, fino a quell'angoscia di castrazione che sembra già svolgere una funzione contenitiva e organizzativa. Angosce che il melanconico può tentare di allontanare solo chiedendo all'altro di incarnare quell'ideale tirannico che lo abita, mentre il perverso le rifugge ricercando attivamente un sentimento di esistenza, vitalità e stabilità nell'eccitamento che unicamente i suoi scenari, rigidi e ripetitivi, possono assicurargli. In entrambi i casi, l'altro resta fondamentalmente in una dimensione impersonale e disanimata, nonché al di fuori del fluire del tempo.
Di qui anche il particolare rapporto con la realtà esterna - quella delle relazioni umane con tutte le significazioni e gli affetti che le animano: nella perversione il rapporto con la realtà è mantenuto solo parzialmente, disconoscendo ciò che può suscitare angoscia, ma a prezzo di «una lacerazione che non si cicatrizzerà mai più e che anzi si approfondirà col passare del tempo [...] nucleo di una scissione dell'Io», come notava Freud rendendosi conto di come l'Io sia sfaldabile e quanto sia precaria e limitata quella sua funzione sintetica che sembrava quasi essergli connaturata, e che peraltro gli impone rimozioni più o meno radicali. Per di più questo disconoscimento del perverso, sempre incerto e di scarsa tenuta, deve necessariamente accompagnarsi a un esasperato controllo della realtà e dell'altro, ricercando disperatamente nella ripetizione dell'identico l'esclusione di ogni esperienza nuova o creativa.
Il distoglimento dalla realtà proprio della perversione, nella melanconia diventa distoglimento della realtà: il soggetto melanconico non rinnega la percezione di ciò che è inaccettabile per lui, ma rinnega la possibilità che quella realtà, in toto, lo riguardi, lo interessi. Sì, la realtà esiste, può anche essere piacevole e interessante, ma non per lui, che ne è perciò ancora più indegno. In entrambi i casi, il risultato è un ingabbiamento di se stessi che sconfina nell'immobilità, più o meno parziale. Una immobilità che, peraltro, è quella tipica - più in generale - dell'affetto depressivo e che corrisponde a qualcosa di morto dentro di sé: il melanconico lo nasconde mimandolo nel niente con cui si identifica, mentre il perverso lo confonde nell'apparente vitalità delle intense sensazioni che le sue condotte sessuali devono procurargli.
L'esistenza di questo vuoto e di questa morte (o questi morti) interni ci porta a un altro punto di articolazione tra melanconia e perversione: in entrambi i casi domina la difficoltà o l'impossibilità di separarsi da persone e rapporti vitali, di elaborare - come suol dirsi - il lutto per la loro perdita, vissuta come una insostenibile mutilazione di se stessi. Che questo valga per la melanconia, lo si sa, è uno degli apporti fondamentali di Freud quando ne ha evidenziato le somiglianze e le differenze rispetto al lutto («nel lutto non compare il disturbo del sentimento di sé»), facendo risalire questa impossibilità alle modalità narcisistiche e ambivalenti della relazione che legava il melanconico a ciò che ha perso, ossia alla essenziale funzione di mantenimento della coerenza, stabilità, continuità, integrità dell'Io che essa svolgeva e alla coesistenza in essa di atteggiamenti e sentimenti opposti, soprattutto amore e odio. Perciò la sua perdita impone all'Io del melanconico di incorporare l'oggetto perduto - non potendo né investirlo né disinvestirlo - per mantenerlo dentro di sé in una sorta di limbo: né morto né vivo in attesa di poter infine sciogliere questo legame narcisistico per allacciarlo con un altro. Ma ciò fa sì che l'odio e la distruttività scatenati ed esasperati dalla perdita e dai rischi che ne derivano ricadano pesantemente sull'Io, che ha incluso in sé l'altro perduto.
L'intollerabilità della perdita e l'impossibilità del lutto valgono anche per il soggetto perverso, che poiché ha bisogno di regolamentare e parcellizzare rigidamente la sua intimità con l'altro, ricerca una situazione impersonale con un complice che, per quanto idoleggiato, nell'amore fisico viene comunque privato della sua autonomia, soggetto a controllo, reso inerte e inanimato, perché nell'anonimia e nell'equivalenza del partner è negata a priori la possibilità di una separazione, ciò che consente di stabilizzare il fragile senso di sé. Quando si confondono gli individui, quando si negano generi e generazioni, quando si mescolano oggetti, zone e fonti del piacere si resta nell'indifferenziato e in un registro fusionale, dove non c'è spazio per una separazione né per la distruttività che ne conseguirebbe.
C'è tuttavia un altro profondo legame tra melanconia e perversione. Dopo la scoperta dell'inconscio e della rimozione, è in particolare attraverso melanconia e perversione che Freud scopre come l'Io stesso (già ormai ridotto ad essere solo una parte dell'apparato psichico, anche se cerca di spacciarsi per la sua totalità) sia «pieno di strappi e fenditure», che costituiscono potenziali linee di sfaldatura, come per un cristallo. Eppure proprio a questa scindibilità è legata la possibilità di essere e soggettivarsi (grazie al linguaggio), che per l'Io equivale poi alla possibilità, per usare ancora parole freudiane, di poter «prendere come oggetto sé medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di sé stesso Dio sa quante altre cose ancora», peraltro cose talvolta terribili ed orribili.
Effettivamente con Melencolia I, al di là della sovradeterminazione e della stratificazione dei simboli e delle allegorie, Dürer ha avuto l'audacia, come scrivono Klibansky, Panofsky e Saxl, di sollevare «la pesantezza animale di un temperamento triste, terrestre» all'altezza di una tragedia tipicamente umana, sottolineata dal confronto del dolore consapevole di chi lotta con i tormenti del pensiero, con la sofferenza inconsapevole del cane e la felice innocenza del putto affaccendato in una attività senza pensiero. Ma tutto ciò perché Dürer intende la melanconia come cifra e prezzo di una biologica artificialità della natura umana che, a paragone dell'animale e dell'infans, con la misura introdotta dal linguaggio crea lo smisurato, il sessuale che può svuotare, vanificare l'umano stesso. Di questo vuoto e questo smisurato, la perversione sembra poter essere - come nota Manuela Fraire nel suo saggio Travestitismo: un abito della melanconia - la maschera o l'abito, talvolta fin troppo trasparenti.