domenica 13 luglio 2003

Hannah Arendt

La Gazzetta di Parma 13.7.03
«L'archivio Arendt - 2. 1950 - 1954», raccolta di scritti della celebre pensatrice tedesca (Feltrinelli)
Capire, una lezione di civiltà
Pagine di alto valore etico e profondo respiro intellettuale. Tra i temi trattati, l'Olocausto

Se il nostro io è artificiale, lo è altrettanto lo Stato che legifera i diritti, la paura, l'ignoranza, la maggioranza, il razzismo, la deformazione medianica e le sue sinonimie.
Un esempio d'attualità di mezzo secolo fa? «Comunismo e totalitarismo: un'equazione stabilita senza riflettere e messa in circolazione come arma per dare la caccia a chiunque abbia a cuore l'uguaglianza sociale o una società senza privilegi di classe».
Lo ha scritto Simona Forti nell'introduzione all'«Archivio Arendt - 2. 1950-1954» (Feltrinelli, 230 pagine, 30 euro, traduzione Paolo Costa), due anni dopo il primo volume «1930-1948».
Sono diciassette capitoletti composti da documenti e convegni, repliche e dibattiti, pareri e commenti, articoli e saggi inediti, tra i più belli e fulminanti di Hannah Arendt, la pensatrice adorata e detestata, sia a destra sia a sinistra, sia da ebrei sia da cattolici, da tradizionalisti e femministe.
Ignorata dalla Garzantina di filosofia benché fosse nata nel 1906 a Hannover (Bassa Sassonia), si laureò con Jasper («Carteggio 1926-1969, Filosofia e politica» Feltrinelli 1988), fu allieva e amante di Heidegger (iscritto al partito di Hitler, rettore all'Università di Friburgo, autore di «Essere e tempo» che ispirò «L'essere e il nulla» di Sartre).
Sposatasi in seconde nozze nel 1936 con Henrich Blücher a Parigi, dove giunse con la madre dalla Svizzera a causa delle persecuzioni naziste, frequentò Benjamin, Aron, Brecht. Internata in un campo dal governo Vichy, appena rilasciata, a Marsiglia, con il marito s'imbarcò per l'America.
Apolide, sradicata, mantenendosi con delle collaborazioni editoriali sino ai cinquant'anni, insegnò all'università di Chicago, di Berkeley, di Princeton, morì d'infarto a New York il 14 dicembre 1975. A Dresda funziona l'«Hannah-Arendt-Institut für Totalitarismusforschung».
In Italia fra i suoi titoli più noti citiamo «Vita activa» (1958), saggio incompiuto su Marx e marxismo; «La banalità del male - Eichmann a Gerusalemme» (Feltrinelli 1964), cronaca del famigerato processo; «Le origini del totalitarismo» (Edizioni di Comunità 1967), ovvero «la negazione più radicale della libertà (...) la convinzione che tutto sia permesso, che tutto sia possibile»; e «Sulla violenza» (Guanda 1996), perpetuata da chi anche democraticamente conquista il potere.
Temi ricorrenti in questo stesso «Archivio»; e dall'intensa prefazione della brava Simona Forti ricopiamo: «Le pagine straordinarie dedicate a 'I postumi del dominio nazista - reportage dalla Germania - riflettono sull'effetto a lungo termine di quell'intossicazione diventata letale nei regimi totalitari, intossicazione che continua a colpire gli uomini post-totalitari: la loro capacità, diabolica e ineffabile a un tempo, di trasformare i fatti in opinioni, il possibile nell'attuale e il contingente nel necessario».
Ed anche se «non vi è nulla che possiamo compiere in maniera assolutamente perfetta», l'assenza assoluta di pensiero, di realtà, diventano assenza di responsabilità (tutti colpevoli, nessun colpevole, si sa). L'anima si atrofizza, si acceca, si assorda.
Allora si edificano laboratori perpetui, trame banali, micce di male che agiscono le une vicine alle altre, dentro di noi, con indifferenza. Già, non siamo solo materia organica e indistinta, «morenti (...) come se il mondo moderno pagasse coi regimi totalitari il prezzo della rottura con la tradizione, espiasse l'abbandono della ''retta via'' segnata dall'etica antica e cristiana».
Alla ricerca di truismi, cioè di quelle verità ovvie che custodiscono il mobilissimo e irripetibile «essere singolare plurale», per rintuzzare politiche poco nobili che sanno riprodurre più diseducazione che garbo, più disoccupazione che talento, più disuguaglianza che parsimonia, più incoltura e spreco che bellezza e bontà.
Dovremmo rifiutare che i riflessi condizionati dei cani, come quelli del fisiologo russo Pavlov (premio Nobel 1904), trasformino l'umanità; ci rendano un ammasso indistinto e disamato senza sole, senza spazio, senza speranze, alla maniera degli allevamenti zootecnici.
Dovremmo finirla di giustificare le uova rotte per sfornare appetibili frittate, le quali, meno simbolicamente, equivalgono a mortificazioni corporali per spaccare «la vita della mente».
Concetti chiari, semplici, sani, che l'Arendt espresse trent'anni prima del francese Foucault e dell'italiano Mario Mieli.
Giudizi che inducono ad una «ontologia del presente», un termine coniato alla fine del XVII secolo per definire la scienza dell'essere in quanto essere, la «filosofia prima» di Aristotele chiamata metafisica: il luogo che contiene i principii della conoscenza. O, a proposito di Heidegger e di linguaggi strumentali, il destino occidentale che supera l'oblio dell'essere e della poesia. In povere parole, visto che «il presente non è mai la ripetizione del passato», Hannah Arendt esorta all'intelligencija.
Non basta essere buoni per agire bene, occorre intuire, afferrare, scegliere, soprattutto capire; siccome ogni cosa influisce su altre, «la comprensione rappresenta il modo specificamente umano di rimanere vivi».
L'ancheggiante magnificenza del mondo, pregava la più giovane Etty Hillesum prima di morire ad Auschwitz.