domenica 13 luglio 2003

l'uomo nuovo...

Corriere della Sera 13.7.03
ELZEVIRO Dal nazismo al comunismo
Creare l’uomo nuovo Il mito del Novecento
di GIOVANNI BELARDELLI

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Quel mito ha avuto corso soprattutto nei regimi totalitari, i quali puntavano a conquistare un dominio totale sulle coscienze attraverso gli strumenti della pedagogia di massa. Tra le due guerre la creazione dell’«uomo nuovo» fu così uno dei grandi obiettivi del regime sovietico, di quello nazionalsocialista, di quello fascista (ma anche, nella seconda metà del secolo, della Cina di Mao o della Cuba di Castro): se i «valori» che si volevano inculcare nelle nuove generazioni erano diversi nei vari casi, analoga era l’intenzione di combattere la «vecchia» e «corrotta» mentalità borghese. Analogo era anche l’intento di distruggere l’individualità, di formare giovani istintivamente portati ad uniformarsi al gruppo, educati ad accettare spontaneamente e senza obiezioni i comandi della collettività (cioè dei vertici del regime).
In realtà il mito dell’«uomo nuovo» ha radici più antiche, che risalgono al secolo XVIII. L’illuminismo condivideva l’idea che l’educazione (come scrisse Helvétius) «potesse tutto». Sulla stessa scia, gli uomini della Rivoluzione francese riconobbero alla collettività il diritto ad impadronirsi delle giovani generazioni, per trasformarle secondo i nuovi valori democratici. Ciò, naturalmente, non implicava di necessità gli esiti totalitari delle dittature del ’900: dalla fiducia nell’onnipotenza dell’educazione sono anche nati i moderni sistemi di istruzione pubblica. E tuttavia qualcosa del sogno illuminista e giacobino di «rigenerare» gli esseri umani, giungendo al punto di cambiare le teste e i cuori delle persone, si ritrova appunto nel mito novecentesco dell’«uomo nuovo» di cui si occupano questi Annali di storia dell’educazione .
Uno dei saggi, scritto da Luca La Rovere, è dedicato all’Italia fascista e alla vasta opera di pedagogia di massa attuata per vent’anni dal regime mussoliniano, con risultati che la storiografia ha generalmente considerato scarsi. Non soltanto, infatti, l’azione educativa del regime si trovò di fronte l’ostacolo rappresentato dalla Chiesa cattolica [ostacolo? ndr]. Soprattutto, il partito fascista ridusse gran parte della formazione delle nuove generazioni, che aspirava ad essere nientemeno che una rivoluzione antropologica, a «un rigido conformismo esteriore e alla ripetizione pedissequa di comportamenti codificati». Non a caso l’azione che avrebbe dovuto formare le nuove leve di giovani e renderle fasciste nel profondo dell’animo finì così con l’essere dominata da una «vera e propria ossessione per il vigore fisico» e col puntare sempre più sull’attività sportiva come chiave di volta dei «nuovi italiani». Nonostante questi innegabili limiti, La Rovere suggerisce però di non considerare irrilevante la politica fascista volta alla creazione dell’«uomo nuovo». Il fatto che, nel 1943-45, tanti giovani avessero seguito Mussolini perfino nell’esperienza di Salò sembra indicare che quella politica, purtroppo, non era stata priva di risultati.