sabato 5 luglio 2003

Machiavelli e Constant

La Stampa Tuttolibri 5.7.03
La politica è potere ma senza etica perde

ETERNO, inossidabile Machiavelli! Più lo si studia, più non soltanto si impara sul mondo degli umani (a cominciare dalla loro dimensione politica, naturalmente), più si ha voglia di studiarlo, certi di scoprire nuovi risvolti, nuove sfumature, nuovi impulsi a quella che per Aristotele era "la più architettonica" delle arti, ossia la politica, che tutte le comprendeva sotto di sé. Quasi come se cambiando i tempi, i regimi, i leader, i costumi politici il Segretario Fiorentino ci fornisse di volta in volta chiavi di comprensione utili, e spesso straordinariamente sagaci. Dunque, quando vediamo un nuovo titolo su Machiavelli - come quello di Ugo Dotti, storico della letteratura e della cultura italiana - non dovremmo sbigottire, né sbuffare, ma pazientemente riprendere in mano il filo rosso che ci lega a questo autentico gigante del pensiero. Rivoluzionario, lo chiama, fin dal titolo, Dotti; e cerca di argomentare l'assunto, peraltro non nuovo, in quest'opera che grandi novità non apporta alla conoscenza del pensiero dell'autore del Principe, ma che in modo piano, qua e là persino aneddotico (anche se non sempre efficace stilisticamente e persuasivo nei nessi), ne ricostruisce l'intera trama, in relazione alla vita e ai tempi. Una biografia esempio di buona divulgazione, con qualche semplificazione di troppo, in chiave marxista, che, nondimeno, dati i tempi, può anche non dispiacere al lettore aduso a letture magari più raffinate ma spesso disincarnate, totalmente affidate all'ermeneutica o alla fenomenologia. La tesi di fondo dell'autore è comunque condivisibile: Machiavelli non è quel "suasore del male che tanti critici… hanno cercato per secoli di avvalorare". E, in tal senso, collocandosi perfettamente nella sua epoca, epoca di trapasso verso l'assolutismo degli Stati, la sua dottrina politica ha avuto di mira davvero il bene comune, che appunto in quell'epoca non può che essere il bene del principe, e accanto a lui, dei sudditi e in definitiva dello Stato stesso. Ma non all'insegna di una mera apologetica della forza, bensì delle comuni, civili libertà. Della libertà fece la sua ragione di vita un personaggio che non è paragonabile a Machiavelli per altezza di pensiero o per il ruolo occupato nella teoria politica, ma non perciò meno degno di attenzione: anzi il suo caso è per certi versi opposto: tanto il Fiorentino è stato studiato e, bene o male, è universalmente conosciuto, quanto costui, lo svizzero francese (nato nel 1767 a Losanna, dove la famiglia protestante si era rifugiata dalla vicina Francia, dove sarebbe morto, a Parigi, nel 1830), Benjamin Constant, è generalmente sottovalutato e oggetto di un'attenzione modesta, benché, nei due secoli che ci separano da lui, egli sia spesso citato, ma, appunto, poco o nulla conosciuto al di fuori della cerchia degli specialisti. Citato come teorico della libertà dei moderni (la difesa gelosa delle prerogative individuali, le libertà "private") contro quelle degli antichi (la partecipazione alla cosa pubblica): dimenticando troppo spesso che Constant tenne alle seconde non meno che alle prime. Ci pensa ora a rimetter le cose a posto, in un libro inconsueto, il bulgaro-francese Tzevatan Todorov, filosofo, sociologo, storico. Opera interessante quanto discutibile, del resto; nel ridisegnare la biografia politico-intellettuale (ma senza escludere il continuo errare di paese in paese, di donna in donna, spesso facendo coesistere amori diversi…: ne seppe qualcosa la più celebre delle sue compagne di vita e d'intelletto, Madame de Staël, da cui Benjamin ebbe anche una figlia, Albertine), di questo personaggio affascinante, Todorov ne sostiene a spada tratta la coerenza: la sua fisionomia politica viene additata esplicitamente come attuale e necessaria. Ossia, diversamente da Montesquieu, liberale classico, e da Rousseau, teorico "esagerato" di una democrazia per forza di cose razionale, Constant rappresenta la sintesi perfetta delle due istanze, incarnando la democrazia liberale, respingendo tanto l'idea moderata di Montesquieu della pura legittimità del potere, quanto l'idea estremistica di Rousseau della illimitata sovranità del popolo. Altri sarebbero stati, in vero, gli sviluppi del pensiero politico, specie dopo la pubblicazione, nel 1835-40, della Democrazia in America di Aléxis de Tocqueville, opera da cui si sarebbe cominciato a discutere delle patologie della politica e dei limiti intrinseci alla democrazia (su queste tematiche, materiali utili sono raccolti nel bel volume di saggi Patologie della politica, curato da Maria Donzelli e Regina Pozzi, in riferimento soprattutto ai dibattiti otto-novecenteschi). Constant non è un gigante della teoria politica come Tocqueville o come Machiavelli; eppure da lui ci giungono molti preziosi insegnamenti. Todorov insiste, per esempio, sul nesso religione-morale-politica (quanto lontani da Machiavelli!) e sul significato e l'importanza dell'impegno politico (egli stesso fu deputato più volte e visse una vita tutta all'insegna della politicità). Come non essere colpiti da affermazioni come questa che Constant fa in relazione alla scomparsa della religione (ossia della morale) dalla vita pubblica? Quando ciò accade, egli dice, "tutti i legami vengono spezzati; il diritto non esiste più; il dovere sparisce con il diritto; si scatena la forza; lo spergiuro fa della società uno stato permanente di guerra e di inganno". Una perorazione di politica etica, dunque, che ben potrebbe entrare nel repertorio del tedesco Ekkehart Krippendorf, un bizzarro libro pieno di suggestioni, posto che si abbia la forza di districare un groviglio storicamente azzardato e filosoficamente certo poco lineare. Ma che importa? Krippendorf, seguendo il libero svolgimento del pensiero, mettendo insieme reminiscenze e studi, passioni personali e esigenze necessariamente universali, ci invita a "un'altra politica", quella che tiene insieme, addirittura non solo Socrate e Mozart, presenti in sottotitolo, ma a loro modo, personaggi assai diversi, e non sempre interni al mondo politico come siamo abituati a conoscerlo: così Goethe e Rosa Luxemburg, Gandhi e Hannah Arendt, Verdi e Kant. Sono numerosi gli artisti che entrano in questo discorso, e non a caso: per l'autore l'arte è politica nella misura in cui propone un atteggiamento rispetto alla realtà: alternativo all'idea classicamente machiavelliana della politica come scienza del potere. Una perorazione di una politica etica in quanto non solo fondata su princìpi morali, ma in quanto soprattutto sganciata da fini di potere. Ma è pensabile una siffatta politica? Per trovare risposte, siamo costretti a ridiscendere dal cielo delle grandi figure esemplari tra le quali Krippendorf ci conduce con uno slalom piacevolmente disordinato, al più maleodorante panorama della politica terrestre, come è praticata, e come i politologi cercano di studiarla raccogliendo dati e provando a teorizzarne l'intima "ragione". Con la preziosa avvertenza - che ci regala un originale politologo italiano, Silvano Belligni, dotato di ruvida (auto)ironia - per cui questa è una scienza "dispersa e schizofrenica" in preda a "un irriducibile relativismo concettuale", possiamo cercare nel libro di Belligni qualche frammento per meglio capire i piani e le mosse dell'agire politico. Non si può qui entrare nel merito del suo tentativo di reductio (a cinque fondamentali idee); basti osservare che da questo suo lavoro, accademico ma non troppo, emerge la poliedrica ricchezza della politica, e nel contempo l'insufficienza di qualsivoglia paradigma per reggerne le sorti e afferrarne il filo conduttore. Come dire, insomma, che c'è una politica per ogni stagione; la piccola politica ordinaria, della distribuzione delle risorse fondata su calcoli di convenienza e la grande politica dei periodi critici e delle età collettive, dominate dagli eroi e dai demiurghi, dai conflitti e dalla sopraffazione dei deboli da parte dei forti; insomma, la politica come cooperazione e la politica come scontro. Due paradigmi diversi, ma che, a ben vedere, si tengono sempre l'un l'altro, come la realtà di questi tempi tragici ci mostrano nelle strette di mano dei signori del mondo che fino a un attimo prima si sono fatti la guerra, e fondano la loro ricerca di consenso interno proprio sull'antagonismo con "l'altro" e la costruzione di logiche di "identità" nazionali, vere o presunte. Qui però lo scienziato politico si ferma, e ci lascia liberi di esprimere le nostre opzioni, e anche, vivaddio, le nostre sacrosante ire e la nostra appassionata aspirazione ad un mondo senza cesari (piccoli o grandi che siano), senza menzogna e ingiustizia, dunque, senza guerra. Anche studiare e lottare "per un altro mondo possibile" è politica, e Machiavelli sarebbe d'accordo con noi.