sabato 5 luglio 2003

storia delle donne

Il Giornale di Brescia 5.7.03
Per amore di Cartesio, contro Cartesio
IL SEICENTO FU TEATRO DI UNA RIVOLUZIONE FEMMINILE ANTE LITTERAM
Le donne e la filosofia
La principessa Palatina Elisabetta di Boemia (Nea)
Cristina di Lorena
Maria Mataluno

Il Novecento è stato il secolo delle donne; ma le radici della sua unica rivoluzione incruenta affondano nel Seicento. Il secolo del Barocco e del metodo sperimentale, della rivoluzione copernicana e della Controriforma fu anche quello in cui per la prima volta le donne si inserirono da protagoniste nel dibattito letterario, filosofico e scientifico. Riforma e Controriforma avevano dato un grande impulso all’alfabetizzazione, che cattolici e protestanti consideravano premessa indispensabile per un’evangelizzazione universale. I pedagogisti presero così a occuparsi anche dell’educazione delle fanciulle, che finalmente non dovevano imparare solo quello che era necessario per diventare una buona moglie, ma apprendere anche nozioni di letteratura e storia dell’arte, matematica e filosofia. Fu così che, a poco a poco, persino un mondo maschilista come quello della filosofia naturale vinse i suoi pregiudizi e alcuni grandi pensatori si degnarono di discutere con le menti femminili più brillanti le grandi questioni della filosofia. Numerosi furono gli scambi epistolari intrecciatisi tra filosofi e donne di cultura nel corso del Seicento, come quello tra Galileo Galilei e Cristina di Lorena, destinataria di una delle celebri Lettere copernicane dell’astronomo pisano. Figlia di Carlo III, duca di Lorena, e moglie del Granduca di Toscana Ferdinando I, Cristina era giunta a Firenze nel 1589 e insieme al marito aveva avviato una politica di rigore morale ispirata ai principi della Controriforma, favorendo i rapporti diplomatici tra Firenze e la Santa Sede e fondando numerosi monasteri e conventi. Una linea a cui rimase fedele anche quando, nel 1620, ormai vedova e morto il figlio Cosimo II, assunse con la nuora Maria Maddalena d’Austria la reggenza per il nipote Ferdinando II. Ma i suoi interessi non si limitavano alla politica: appassionata di scienza e filosofia, intrattenne costanti rapporti col mondo scientifico toscano, tanto che Antonio Santucci le dedicò una ruota perpetua da lui realizzata. Un giorno la Granduchessa chiese a Benedetto Castelli come fosse possibile conciliare la teoria copernicana del movimento della Terra con l’episodio biblico in cui Giosuè ordina al sole di fermarsi; quando Castelli riferì la conversazione a Galilei, questi, già nel mirino dell’Inquisizione, decise di indirizzare a Cristina la sua più celebre difesa della teoria eliocentrica: non c’è contrasto tra scienza e fede, le scrisse, poiché sia le leggi di natura sia le parole della Scrittura provengono da Dio. Dal momento però che la teoria copernicana è stata verificata dall’osservazione sperimentale, si deve dedurre che le Scritture non vadano interpretate alla lettera, ma come allegorie. «Ho sognato Elisabetta di Boemia. / Ho sognato il dubbio e la certezza. / Ho sognato il giorno di ieri. Forse non ebbi ieri, forse non sono nato. / Forse sogno d’aver sognato. / Sento un po’ di freddo, un po’ di paura. / Sul Danubio è ferma la notte. / Continuerò a sognare Cartesio e la fede dei suoi padri». La poesia Cartesio di Jorge Luis Borges è l’introduzione migliore alla figura della principessa palatina Elisabetta di Boemia. Nata a Heidelberg nel 1618 e morta nel 1680, Elisabetta era celebre per la sua passione per lo studio: si racconta che leggeva fino a notte fonda, assisteva a dissezioni anatomiche e ad esperimenti scientifici. Ma la sua fama è legata soprattutto allo scambio epistolare che intrattenne, dal maggio 1643 al dicembre 1649, con René Descartes, e che secondo Eugenio Garin costituisce «l’antefatto, lo sfondo e il commento» dell’ultima opera pubblicata da Descartes, il Trattato sulle passioni. Dopo aver letto le Meditazioni metafisiche e le Regulae del filosofo francese, Elisabetta si era resa conto che il rigido dualismo a cui Cartesio aveva ridotto la realtà - costituita da sostanza estesa (res extensa) e sostanza pensante (res cogitans), da materia e anima razionale - rendeva difficile spiegare il rapporto, nell’uomo, tra l’anima immateriale e il corpo. Perciò nella prima lettera che gli indirizzò, il 16 maggio 1643, chiese a Descartes di spiegarle «come l’anima dell’uomo può determinare gli spiriti del corpo per le azioni volontarie (non essendo che una sostanza pensante)». Sembra infatti, continuava Elisabetta, che ogni movimento avvenga per la spinta impressa da un corpo a un altro corpo e dipenda dalla forma e dal peso del motore. Ma ciò presuppone che sia quest’ultimo che il corpo mosso siano estesi, ovvero dotati di materia, e questo è incompatibile con l’idea cartesiana di un’anima assolutamente immateriale. Con questa obiezione Elisabetta aveva messo in luce una delle maggiori aporie del sistema filosofico cartesiano. Ancor più puntigliosa del demone maligno che instillò in Descartes il suo proverbiale dubbio metodico, Elisabetta seppe cogliere alcune incongruenze anche nell’etica cartesiana. Nella lettera del 21 luglio 1645 il filosofo propose alla principessa alcune riflessioni in margine al De vita beata di Seneca, incentrate sulla natura della virtù e sulla capacità della ragione di dominare le passioni; ma Elisabetta, col senso pratico che la distingueva, respinse l’idea che l’anima, in quanto separata dal corpo, potesse raggiungere la beatitudine col solo esercizio della volontà: «Vi sono infatti delle malattie - rispose a Cartesio - che tolgono il potere di ragionare, e quindi anche quello di godere di una soddisfazione ragionevole; altre ancora diminuiscono le forze e impediscono di seguire le massime formate dal buonsenso, esponendo l’uomo più moderato a lasciarsi trascinare dalle passioni». Elisabetta non fu la sola donna a essere stimolata alla ricerca dal pensiero di Descartes: basta pensare alla regina Cristina di Svezia, che addirittura volle Cartesio come insegnante di filosofia. Tra le cosiddette «filosofe cartesiane» si annoverano anche studiose come Lady Damaris Masham, che fu allieva di Locke, Sofia di Hannover e Sofia Carolina (sorella e nipote di Elisabetta di Boemia), che furono collaboratrici e protettrici di Leibniz, e soprattutto l’inglese Anne Finch Conway. Donna dai vasti interessi scientifici, Lady Conway stabilì dal 1650 un lungo sodalizio intellettuale col principale esponente della Scuola di Cambridge, Henry More. Nel tentativo di conciliare le osservazioni empiriche delle scienze naturali con la filosofia morale e la metafisica, Lady Conway oppose al meccanicismo allora dominante una concezione della natura in cui accanto ai principi della chimica e della fisica agiscono delle forze vitali e nella quale la materia ha come suoi elementi primi non più gli atomi ma le monadi. Proprio quelle monadi che ritroviamo nell’immaginifica e rivoluzionaria visione del mondo di Leibniz, a cui arrivarono tramite il medico e filosofo Francis Mercury van Helmont, che per un certo periodo studiò con More e la Conway.