venerdì 11 luglio 2003

relatività, da Aristotele a Wittgenstein...

La Gazzetta di Brescia 11.7.03
Un saggio di Antonio Sparzani
RELATIVITÀ DAL SAPORE ANTICO
Maria Mataluno

La conseguenza più drammatica del principio di relatività l’ha tratta Luigi Pirandello: «Abbiamo tutti dentro un mondo di cose - scrisse l’autore di Uno, nessuno e centomila, - ciascuno un suo mondo di cose. E come possiamo intenderci, signori, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose che sono dentro di me: mentre chi le ascolta inevitabilmente le assume col senso e il valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci, non ci intendiamo mai». Con i suoi "personaggi in cerca d’autore" Pirandello ha scritto una pagina decisiva nella storia dei protagonisti letterari: la stessa pagina scritta da Kafka e da Musil, da Svevo e Thomas Mann, che racconta dello spaesamento, dell’inadeguatezza, del crollo di ogni certezza nel cuore dell’uomo contemporaneo. Non poteva essere diversamente, per chi è vissuto nel secolo della psicanalisi e del principio di indeterminazione, e soprattutto nel secolo della relatività. La teoria che eternamente sarà legata al nome di Albert Einstein, infatti, non ha rivoluzionato solo la fisica e la matematica, ma anche la letteratura e l’arte, contribuendo a modificare la mentalità stessa delle persone: dopo la fiducia ottocentesca nella Verità e nella Scienza, e la celebrazione futurista del progresso, l’umanità si è ripiegata su se stessa per contemplare la relatività - e quindi la fragilità - del tutto. Ma la relatività non è un concetto inventato dal Novecento, bensì permea di sè tutta la storia del pensiero occidentale. Lo dimostra Antonio Sparzani in un saggio coltissimo e ricco di spunti originali, Relatività, quante storie (Bollati Boringhieri, 321 pagine, 30 euro), un percorso tra scienza e letteratura, tra matematica e filosofia, alla ricerca di quanto di assoluto c’è nel relativo. Sparzani, docente di Fondamenti della Fisica all’Università Statale di Milano, non si limita a rintracciare le origini del concetto di relatività nell’opera di Bruno e di Galilei, per poi seguirne gli sviluppi negli scritti di Klein e Lorentz e la definitiva affermazione con Einstein; ma ci porta alla fonte del pensiero occidentale, guidandoci con sicurezza e rigore filologico tra i testi di Aristotele e Dante, Bruno e Ariosto, Casanova e Queneau, Mann e Calvino, Rimbaud e Mallarmé, e cercando di dimostrare come una certa ricezione dell’idea della relatività nella cultura europea possa rappresentare il presupposto per un rovesciamento di prospettiva che conduca dal relativo all’assoluto. Relazione e rapporto, reciprocità e dialogo. Questo è relatività per Aristotele, che definisce relative quelle cose che «sono in rapporto tra loro come il misurabile rispetto alla misura, il conoscibile rispetto alla conoscenza e il sensibile rispetto alla sensazione»; e lo è anche per Kant, che usa l’aggettivo relativo per definire la musica, arte della connessione e dei rapporti per eccellenza, tra canto e musica, suono e silenzio, movimento e stasi. L’idea di relatività spesso coinvolge quella di movimento. È il caso dell’episodio dell’Orlando Furioso in cui Brandimarte e Rodomonte si affrontano su un ponte e, incapaci di trovare «ove fermare il piede», precipitano nel fiume rimanendo «fermi in sella»: fermi rispetto ai loro cavalli, ma non rispetto al ponte. Oppure del rapido e inavvertito cambiamento di prospettiva nella poesia Davanti a San Guido: i cipressi «mi balzarono incontro», scrive Carducci trasferendo sugli alberi la velocità del treno sul quale sta viaggiando, ma poco dopo gli stessi cipressi lo implorano: «Oh resta qui», perché adesso è lui a muoversi mentre loro sono in quiete. Fu lo stesso Copernico, del resto, che di relatività e punti di vista se ne intendeva, a scrivere: «Le cose stanno come quando parla l’Enea di Virgilio, dicendo: "Ci allontaniamo dal porto, arretrano le terre e le città"...». «Relativo» è ciò che viene visto sotto diversi punti di vista, e qui è d’obbligo chiamare in causa i pittori medievali e rinascimentali, da Piero della Francesca a Leonardo; ma anche Ireneo Funes, lo straordinario uomo dalla «memoria totale» descritto da Borges, che non riesce a capacitarsi di come «il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte)». Insomma: il nome fa parte della rosa, come si chiedevano gli antichi, come il suo colore o il suo profumo, o è il frutto di una convenzione tra i parlanti? L’idea di «gioco linguistico» coniata da Wittgenstein avrebbe risolto in parte questi problemi nel 1927. Se il concetto di relatività è in grado di costruire un ponte tra scienze umanistiche e scienze fisiche, esso può essere anche il punto di partenza per unire rive ancor più distanti: quelle che separano una cultura dall’altra. Come al di là dell’infinità di nomi che si possono dare a un oggetto rimane sempre un nucleo di caratteristiche sensibili che fanno di quell’oggetto se stesso, così al di là della pluralità di culture e lingue deve pur esistere un Assoluto in grado di fare da minimo comune denominatore: potrebbe essere Dio, suggerisce Sparzani, ma anche lo stesso concetto di relatività, perché, come scrisse Leopardi, «non v’è quasi altra verità assoluta se non che tutto è relativo».