domenica 21 settembre 2003

Il Tempo, su Buongiorno, notte e il festival di Toronto

il Tempo 20.9.03

(Gianluigi Rondi, Pupi Avati, Giuliano Montaldo, Massimo Ghini, Francesco Alberoni)

IL PARERE DEL CRITICO
di GIAN LUIGI RONDI


DI RECENTE in certi ambienti ci si è dedicati a un giochino di fine estate, quello di dir male del cinema italiano. L’occasione, anzi il pretesto, il mancato Leone d’oro a Venezia a «Buongiorno, notte» di Bellocchio che non sarebbe stato capito dagli stranieri in giuria i quali, all’oscuro delle vicende italiane, vedendo alla fine Moro libero per le strade di Roma non si sarebbero resi conto che si trattava di un sogno di uno dei suoi carcerieri, la brigatista in crisi. Se fosse vero, e se quegli stranieri in giuria avessero dovuto conoscere i fatti esposti per distinguere la rappresentazione cinematografica di un sogno da quella di una cronaca, non avrebbero meritato di far parte di un consesso chiamato a giudicare dei film. Con loro, comunque, c’erano due italiani che quei fatti li conoscevano bene. Non sono intervenuti, sembra - a quanto si è letto - perché non condividevano la cifra «politica» del film con la crisi della brigatista.
Certo non era una cifra «storica» perché Bellocchio, nel suo film, aveva immaginato e inventato. Cosa ne sappiano noi, però, della crisi di Agamennone quando Calcante gli ordinò di uccidere Ifigenia? Pure il testo greco vi ha dedicato alcune fra le sue tragedie più celebri, a cominciare dalle due di Euripide arrivate fino a noi. E nessuno obietta su quei fatti, neanche quando, nell’«Ifigenia in Tauride», Artemide provoca il lieto fine.
Altro pretesto recente per dir male del cinema italiano, la circostanza che produttori e autori non si decidano ancora a realizzare film in inglese. Da qui i nostri insuccessi all’estero con film definiti «non esportabili». La smentita è arrivata proprio in questi giorni con parecchi nostri film andati incontro a unanimi consensi in alcuni festival del Nord America, a Toronto e a Telluride. Non solo «Buongiorno, notte», che a Venezia non avrebbero capito, ma «Il cuore altrove» di Avati, «Ricordati di me» di Muccino, «La meglio gioventù» di Giordana, «La finestra di fronte» di Ozpetek e, soprattutto, «Io non ho paura» di Salvatores che Budd Schulberg, il famoso sceneggiatore di «Fronte del porto», ha definito «il film più bello che abbia visto nella mia vita». E non era parlato in inglese, come non lo erano gli altri.
Naturalmente l’inglese — la lingua «franca» di oggi — apre molte più porte ed è logico che un produttore, dovendo immettere un suo prodotto sul mercato, cerchi quello che gli offre spazi maggiori; da qui il successo nel mondo dei film americani e di tutti quelli parlati in inglese. Il cinema, però, come diceva Chiarini, è industria, il film invece è arte. Se mettendosi a parlare in inglese un film annulla la propria identità culturale e quella del suo autore, è preferibile che si tenga all’italiano, evitando quel termine orribile oggi tanto di moda che è «omologazione».
Come hanno fatto Visconti, Rossellini Fellini.

Pupi Avati: «Oltre al mercato c’è la qualità»
di SIMONA BUONOMANO


PUPI AVATI non vuole sentir parlare di problemi di esportabilità del cinema italiano. Insieme a Ozpetek, Muccino, Salvatores, Bellocchio e altri connazionali ha riscosso un ottimo successo al Festival di Toronto con il suo «Il cuore altrove», acclamatissimo: «A Toronto - ci dice - erano presenti nove titoli italiani, una presenza numericamente e qualitativamente rilevante. Il nostro cinema è apprezzato a livello internazionale. Ci sono film che hanno una garanzia di distribuzione in molti Paesi, alcune pellicole vengono distribuite anche in 25 nazioni. È chiaro che molti non sono film che partono con intenti puramente commerciali, ma hanno altre ambizioni. Noi preferiamo un cinema di qualità». Ma non avrebbe più facile mercato, il nostro cinema, se fosse recitato in inglese, come suggeriscono alcuni? «Dipende - ci risponde Avati (nella foto accanto) - quando il cinema italiano affronta certi generi, come il thriller, penso che dovrebbe avere la possibilità di essere girato in inglese». Avati non ha voglia invece di parlare del mancato Leone al film di Bellocchio: «Non l'ho visto, quindi non posso schierarmi. Non sono in grado di avere un’opinione obiettiva in proposito».
Difende la giuria di Venezia Giuliano Montaldo, direttore di Rai Cinema, secondo il quale non è possibile che i giurati stranieri non abbiano compreso il caso Moro: «Quando il giudizio è fatto, non c'è da chiedere altro. Poi ho grande rispetto per Monicelli. Mi sorprenderebbe se gli stranieri non avessero capito il film, perché al Festival di Montreal ha ricevuto applausi fragorosi, vicino a me c'era una ragazza di 14 anni che era commossa. Ricordiamoci che il terrorismo è un problema che esiste in molte parti del mondo». Concorda l’attore Massimo Ghini: «Il caso Moro è talmente eclatante, mi sembra assurdo che persone colte come i membri di una giuria possano non comprenderlo». Il problema dell’esportabilità del cinema italiano secondo Ghini non esiste: «Abbiamo vinto tanti premi, poi i film sono sottotitolati, a dire il vero mi sembra una "gran fregnaccia"». Per Giuliano Montaldo invece c’è di che preoccuparsi: «Ora con l'Europa unita c'è uno scambio continuo in vari settori, ma mi sorprende che il lavoro di coproduzione e codistribuzione non sia più sviluppato. La coproduzione dà subito la certezza di un mercato in più Paesi. In passato c’erano scambi continui, non solo produttivi, ma anche di cast, oggi non è così». Gli fa eco Francesco Alberoni, che presiede la Scuola Nazionale di Cinema: «Il vero problema non è la lingua, è che bisogna fare accordi di coproduzione e codistribuzione». La lingua inglese può servire in alcuni casi invece, secondo Montaldo: «Dipende dalla storia: se faccio un film su una famiglia che abita in Prati a Roma, non posso girarlo in inglese. Poi non tutti gli attori italiani parlano l'inglese e si rischierebbe di umiliare interpreti straordinari: Gian Maria Volontè era eccezionale, ma non conosceva l'inglese. Eppure i suoi film sono andati all'estero, perché ricordiamoci che si può anche parlare con i sottotitoli». Non ha problemi a recitare in inglese Massimo Ghini, ma non ne riconosce la necessità: «Il problema della lingua - ci dice - è sempre stato strumentale. Gli americani, che sono titolari dell’inglese, l'hanno voluto imporre per essere padroni assoluti del mercato». L’ostilità del mercato statunitense è sottolineata anche da Alberoni: «Il cinema italiano ha difficoltà ad imporsi negli Usa perché gli americani vogliono che sia girato lì da loro, e usano il pretesto di rifiutarsi di fare il doppiaggio. Però i nostri film sono andati bene e hanno persino vinto degli Oscar». E intanto, come fa notare Ghini, i film italiani di qualità tornano a riscuotere successo in patria, il che non è poco: «Il dato che dovrebbe interessarci davvero è che il pubblico sta premiando il nostro cinema».