domenica 21 settembre 2003

Sergio Zavoli, a proposito di informazione in televisione e di Buongiorno, notte

L'Arena di Verona 20.9.03

Parla Sergio Zavoli, che domani compie 80 anni, amareggiato soprattutto per una Rai «appiattita su modelli altrui»

«La tv è agli arresti domiciliari»
«Non ce la fa a uscire dalle regole imposte dai poteri dominanti»

di Daniela Simonetti

Domani compie 80 anni, è un’icona del giornalismo televisivo, ha rivoluzionato il modo e lo stile di condurre le inchieste per il piccolo schermo: Sergio Zavoli, una vita spesa nella Rai, non è ottimista sulle prospettive dell’informazione televisiva e, in un’intervista, parla di tv pubblica, di audience e pubblicità, del fenomeno Murdoch, fino al caso-Bellocchio che ha scosso la Mostra del Cinema di Venezia. In sostanza, afferma il giornalista, è sempre più difficile fare una buona televisione e anche la Rai, affetta da instabilità cronica, deve tenere conto dei cambiamenti e della velocità con cui avvengono: «Penso, credo controcorrente, ma rispetto a tutto il sistema e non solo alla Rai, che non si valuti il vero fattore della novità, cioè l’ingresso di Murdoch, con tutta la sua imponente "mercanzia", nel nostro mercato mediatico. A una velocità impressionante egli sta costruendo un sistema che gode di mezzi e contingenze speciali. Non capisco bene come, a destra, si concepisca il vantaggio da poterne trarre, ma temo che la sinistra sia ancora lontana dall’averlo addirittura immaginato. Bisogna diffidare della velocità dei fenomeni, a meno di non saperli interpretare e governare. Quel che mi pare certo è che la rivoluzione, non essendo più il cambiamento, ma la velocità del cambiamento, comporti il rischio di svegliarsi, una mattina, e di vedere che i telespettatori se ne erano già andati senza di noi. Certo - prosegue Zavoli - la Rai, con la sua lunga storia, ha in sé gli anticorpi per difendersi, ma non dovrà perdere tempo. Il suo futuro è già cominciato da un pezzo».
Intanto bisogna fare i conti con l’audience che sempre più difficilmente si sposa con la qualità: «Sono i palinsesti a dircelo. Essi vengono largamente condizionati, non oso dire governati, dalla pubblicità, la quale insegue i "grandi numeri", quindi i programmi, diciamo, più adescanti e redditizi. L’audience è la metafora stessa del consenso: il quale, come è noto, non converge sulla qualità, tranne in casi molto rari. È paradossale che uno strumento con responsabilità civili, culturali, etiche di questa portata finisca per privilegiare l’offerta più corriva».
E il giornalista ricorda come le sue inchieste fino a "Credere, non credere" vennero trasmesse in prima serata senza pubblicità: «Io stesso, punendomi con le mie mani, mi lusingavo di vederle esentate, d’ufficio, dalla contaminazione degli spot, neanche fossi Fellini! Certe cose, prima o poi si pagano. Le inchieste, per giunta a ciclo, sono presenze invadenti, che presuppongono un pubblico particolare, richiedono continuità e attenzione. Così, via via, sono scivolate verso una notte sempre più alta. Ho visto programmi di un certo impegno, per nulla astrusi, rivolgersi sempre di più agli insonni, ai medici di guardia, ai vigilantes, alle guardie carcerarie, o ai disturbati nel pensiero. Questo il servizio pubblico non può permetterselo. Competere è doveroso, ma a condizione di distinguersi, non di appiattirsi sul modello altrui. Non vorrei che, per paradosso, la tendenza dovesse addirittura invertirsi».
E, anche nel caso di buona televisione, si ha l’impressione che questa sia in qualche modo sotto tutela, «come negli arresti domiciliari» dove non si può uscire di casa, cioè dalle regole imposte dai poteri dominanti: «In altri tempi, chi aveva in Rai il mestolo in mano, cioè Ettore Bernabei, forte oltretutto dell’appartenenza alla parte politica più forte, si faceva garante dell’azienda al punto di potersi permettere Tv7, per dirne una, che uscì dalle strettoie del Palazzo per entrare negli spazi della società».
Il nome di Zavoli è legato indissolubilmente alle inchieste televisive: fra tutte resta memorabile quella sul caso Moro ("La notte della Repubblica") con una toccante intervista a Germano Maccari: il brigatista parlò fra le lacrime del rapimento, della prigionia e della morte di Moro. E sono di pochi giorni fa le polemiche sul film di Marco Bellocchio "Buongiorno, notte" che ha mancato il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia.
Zavoli lo ha visto e lo giudica in questi termini: «Nel rispetto più elementare e più fermo dei diritti di un artista di volgere il proprio lavoro, qualunque ne sia il pretesto o l’ispirazione, verso una libera creatività, temo soltanto che il potersi esentare dal "vero" possa trasformare l’interpretazione nell’unica superstite "verità"». Ciò vale soprattutto per i giovani che non hanno vissuto quella storia e ne deducono l’attendibilità, per giunta suggestiva, dalla trasposizione immaginativa. Ciò mi ha fatto avvertire una vaga perdita di fiducia nel mio lavoro, sentendomi attardato dall’aver voluto e dal voler cercare di capire, rispetto a chi, potendone prescindere, finisce per fissare, paradossalmente, la sola possibile storia» .
La vita di Moro poteva essere salvata? «Che la si potesse salvare, credo non vi siano dubbi. Sarei molto più cauto se il dilemma vertesse sul doverla salvare "a tutti i costi" , cioè accettando le condizioni dei brigatisti. Certo la vita di un uomo dovrebbe valere di più della ragion di Stato, ma neppure Dio ha avuto orecchi per la supplica di Paolo VI, tant’è che il Papa, sconfitto, gliel’ha dolorosamente addebitato» .
Sarebbe possibile un ritorno di Zavoli in televisione? «Possibile, forse. Facile no. Sono un parlamentare, dedico la gran parte del mio tempo a questa nuova, complessa esperienza. Eppure mi sorprendo ancora a immaginare programmi! Epicuro diceva che "la maggior gioia è sempre prima del fare". Preferisco, in genere, gioire, un po’ meno facendo».