domenica 28 settembre 2003

Roberto Escobar risponde alla lettera di un "nemico" di Buongiorno, notte
e la morte di Edward Said

(segnalato da Sergio Grom. Nello stesso inserto può essere d'interesse anche "Ragionare è diabolico" (pag.33) sul libro di Odifreddi di cui si è già fatto cenno su questo blog.)

Il Sole 24ore, DOMENICALE 28.9.03
La storia secondo Bellocchio
risponde Roberto Escobar


Egregio Escobar, ho capito bene che la sua recensione al film di Bellocchio Buongiorno, notte si prefiggeva l'obiettivo di ribadire il concetto che il cinema non ha una immediata valenza politica, o - come si diceva una volta - «l'arte è autonoma», o - come ha ripetuto lei - «in quanto cinema non è realtà, ma immaginazione». Condivido, ovviamente. Ma, se è pur vero che Bellocchio «non è uno storico, ma un autore», è altrettanto vero che il suo film si occupa di storia, della nostra storia più recente e tragica, e questo significa che al di là della sua intenzione, malgrado lui, rappresenta insieme all'immaginazione anche la realtà, e se pur non da storico, tuttavia, poiché compie o non compie delle scelte ideologiche, propone un giudizio, che è anche un giudizio storico. Non si pone fuori dalla storia, oltre la storia: è in quella storia, e lei ha fatto bene a sottolineare analogie e differenze con I pugni in tasca.
Ma a questo punto le nostre strade e il nostro giudizio divergono. Confesso che da un critico come lei mi aspettavo una maggiore autonomia rispetto al teatrino incensatorio che è seguito più al mancato premio che alla visione del film. Tutti hanno premesso consociativamente l'aggettivo "bello" parlando del film. È vero che lei non lo ha fatto, ma non mi è sembrato neanche che sia andato tanto al di là della difesa d'ufficio del principio di cui sopra: non una parola sulle modeste scelte registiche, come quella di distinguere i sogni di Chiara con una dolce musica classica, mentre la realtà è sottolineata dai duri Pink Floid, o la poco più che macchiettistica riunione degli ex partigiani. Quanto all'analisi psicologica, mi pare che le sia sfuggito il non piccolo particolare che Alessandro la madre l'ha uccisa, mentre il padre - Moro Chiara non riesce a uccidere veramente, questo l'hanno fatto realmente i suoi compagni, esecutori di mandanti che restano ignoti agli spettatori (l'unico pregio del film è proprio questo di non aver seguito la solita pista della vulgata antiamericana), ma esecutori pietosi in tutti i sensi; così il film non scontenta nessuno.
Neanche quelli che allora avevano vissuto come un pugno nello stomaco l'attacco alla famiglia de I pugni in tasca, che ora sono consolati dall'affetto famigliare toccante di Moro. Un film furbo, quindi, anche se un po' di regime. Ma anche i critici e anche lei mi pare che facciano un po' i furbi, avete paura di scontentare qualcuno?
(Gian Piero Ghini - Bologna)

Riassumiamo: Marco Bellocchio non è uno storico, ma un autore, ed è signore della sua immaginazione. Il signor Ghini ce lo concede. Subito dopo però aggiunge che "Buongiorno, notte" si occupa di storia, e che perciò tanto signore della propria immaginazione il regista non ha diritto d'essere. Insomma, il signor Ghini afferma un principio, e poi sotto sotto lo nega. Se lo avesse negato subito, avrebbe risparmiato tempo e parole. Già che ci siamo: chi decide quale realtà si debba rappresentare, e come? Il signor Ghini in persona, o un comitato?
Quanto al merito - se il film sia o non sia "adeguato" alla storia -, si potrebbe rispondere che su questi fatti e su quegli anni Bellocchio dà un giudizio illuminante e spietato, e insieme quieto. E lo dà non rappresentando la realtà - qualunque cosa significhi -, ma affondando nella sua e nostra memoria lo sguardo splendidamente soggettivo della macchina da presa.
In ogni caso, il cinema è un felice discorso pubblico. In esso, per fortuna, tutte le parole e le opinioni hanno dignità. Se sono numerose e varie, quel discorso si fa ancora più felice (e così è accaduto in queste settimane per "Buongiorno, notte", talvolta con rispetto delle ragioni del cinema, talvolta con un sentore di grossolanità contenutistica).
E però meno felice, e meno elegante, è che si accusi non si sa chi d'aver messo in scena un «teatrino incensatorio». L'affermazione è generica, e dunque è volgare. Lo stesso vale per le accuse di consociativismo e di regime (quale?). Meglio stare alla larga da queste parole abusate e vuote, il cui senso non è l'apertura verso un discorso pubblico, ma la sua chiusura. Meglio non frequentarli, questi slogan in voga nei piani bassi della politica. E soprattutto: meglio sedersi in platea senza rancori, e con una fertile disponibilità. Ci si diverte di più.
P.S. Per fatto personale: quando scrivo io non faccio il furbo, ma certo ho sempre paura di scontentare qualcuno. Per la precisione: i miei lettori e le loro intelligenze, la loro sensibilità, la loro buona fede. Quanto ad Alessandro e a Chiara, non c'è dubbio: il primo uccide la madre, mentre la seconda non uccide il padre. Se il signor Ghini avrà la pazienza di rileggermi, scoprirà che proprio questo sostengo e argomento in 3.888 caratteri a stampa (spazi esclusi).

ROBERTO ESCOBAR

Il Sole 24ore, DOMENICALE 28.9.03
(segnalato da Sergio Grom, ricevuto da Paola D'Ettole)
Edward Said - Morto a 67 anni l'intellettuale palestinese che ci ha insegnato a non cadere nelle trappole degli stereotipi colonialisti
Smascherò un Oriente inventato
L'orientalismo è un insieme di concetti e immagini che l'Occidente ha cristallizzato parlando più di sé che di quei Paesi considerati esotici

di Luigi Sampietro

Era un critico letterario, Edward Said, ma era anche qualcos'altro. Era un accademico, professore alla Columbia University, ma anche qualcosa di più. Aveva scritto un paio di libri - Orientalismo (1978) e Cultura e imperialismo (1993), tradotti in più di venti lingue - che hanno contribuito in maniera decisiva a cambiare l'orientamento della cultura contemporanea. Aveva precisi interessi politici ed era un acceso anche se controverso sostenitore della causa dei palestinesi. Nel circuito, diciamo così, "intellettuale" - dibattiti televisivi, conferenze, interviste, articoli su giornali e riviste di tutto il mondo - Said era una figura di prima grandezza. In America aveva messo o rimesso in circolazione il personaggio dell'intellettuale impegnato. Ed era una superstar.
Era malato di leucemia da una decina di anni ed è morto lentamente. Sapeva di avere la spada di Damocle sopra la testa ma non aveva mai voluto sapere esattamente quanto gli restasse da vivere. Si era convinto, disse a un giornalista nel 1998, che fosse possibile, con un atto di volontà, non pensare alla morte. E ci era riuscito.
Negli ultimi tempi, le cure mediche avevano avuto un effetto negativo sulla sua memoria, e Said aveva rivolto la propria attenzione, con curiosità quasi divertita, a cercar di capire quale rappresentazione del mondo si possa avere in queste condizioni. Nel 1999 aveva scritto un libro autobiografico, Sempre nel posto sbagliato, sulla prima parte della propria vita in Medio Oriente, e aveva poi allargato la propria riflessione al problema della memoria storica in generale. Di una civiltà che cosa resta? E che cosa si cancella?
Said era nato in Palestina nel 1935, all'epoca del mandato britannico della Società delle Nazioni. Era figlio di un facoltoso arabo di religione cristiana che era emigrato negli Stati Uniti prima della Grande guerra e che era tornato a Gerusalemme negli anni Venti. Said, che aveva ricevuto il nome di Edward - pare - in onore del principe di Galles, aveva avuto una educazione strettamente anglicana e anglofona. E un'infanzia e un'adolescenza dorate, accudito da stuoli di fantesche e di servi. In casa gli era permesso parlare francese ma non in arabo. Aveva studiato al Cairo e aveva avuto come compagno di scuola Omar Sharif. A 16 anni si era trasferito con la famiglia in America. Aveva studiato a Princeton e ad Harvard. Dal 1963 abitava a New York.
La "conversione" di Said risale al 1969 ed è dovuta, come lui stesso ha ricordato in una conferenza tenuta alla New York Public Library e poi ristampata sulla London Review of Books (1998), a un'improvvida dichiarazione di Golda Meir: «I palestinesi non esistono». Era ancora fresco il ricordo della Guerra dei sei giorni (1967) e Said sentì il dovere di provare a se stesso e al mondo di esserci. Insomma, divenne quello che culturalmente non era forse mai stato.
Said ha scritto che l'Oriente è una invenzione della mente europea. A differenza della "romanità" o del "germanesimo", l'Oriente contrapposto all'Occidente è una costruzione ideologica e non corrisponde a una precisa realtà storica e culturale. L'Oriente, che in realtà è solo il Vicino Oriente, non corrisponde all'Islam e non corrisponde al mondo arabo. Comprende l'antico Egitto e l'Impero ottomano, gli ebrei della Bibbia e i cristiani. É un termine di comodo con il quale a partire dall'epoca napoleonica ci si è serviti per designare una realtà decaduta e fitta di misteri, ambigua e preziosa, che la penetrazione coloniale avrebbe dovuto salvare.
Gli europei si sono sempre rivolti all'Oriente dopo averlo addomesticato dentro la propria coscienza: dopo avere addirittura inventato la parola "orientamento". Non che l'Oriente sia stato inventato dall'orientalismo. Ma l'orientalismo è sempre stato un comodo "passepartout" per entrare in certi Paesi senza ascoltare quello che la gente del luogo avesse da dire. In altre parole, è un insieme di concetti e di immagini che l'Occidente ha cristallizzato parlando con se stesso.
Non di consenso si tratta allorché dall'incontro di Gustave Flaubert con una cortigiana egiziana nasce lo stereotipo della donna orientale (Salambo, 1862) destinato ad avere grande fortuna. La cortigiana non parla mai di sé; è Flaubert a parlare per lei. "Straniero di sesso maschile e di condizioni agiate", la possiede fisicamente e la descrive e interpreta dal proprio punto di vista; e spiega al lettore in che senso sia tipicamente orientale.
I viaggiatori, che nell'Ottocento visitavano la Siria, la Palestina o il Mahgreb, tornavano sempre con dei resoconti che rafforzavano un'immagine già elaborata in Europa dal pregiudizio degli studiosi di egittologia o di filologia semitica oppure dalla fantasia dei romanzieri o dei poeti.
Da una parte c'era la ragione e la razionalità della civiltà guida occidentale e dall'altra solo i resti di un passato caduto nelle mani dei barbari. Gli scrittori, è vero, "ristrutturarono l'Oriente rendendone visibili i suoi colori e le sue luci", ma l'Oriente reale fu al massimo uno spunto per le loro visioni e quasi mai guidò dall'interno lo sviluppo di quelle visioni.
Terra di "sensualità, promesse, terrori, sublimità, piaceri idillici e indomabile energia" e allo stesso tempo territorio del demonio che deve essere dominato, "l'Oriente degli orientalisti è un sistema di rappresentazioni circoscritto da un insieme di forze che ha introdotto l'Oriente nella cultura occidentale, poi nella consapevolezza occidentale e infine negli imperi coloniali occidentali".
Insomma, conclude Said da quel sottilissimo letterato che sapeva essere, "l'orientalismo è una scuola di interpretazione il cui oggetto è stato per caso l'Oriente. Le effettive scoperte dell'orientalismo - frutto dell'impegno di devoti studiosi che hanno curato e tradotto testi, redatto grammatiche, compilato dizionari e innalzato un edificio teorico verificabile - sono sempre state condizionate dal fatto che le sue verità, come tutte le verità trasmesse attraverso la lingua, solo nell'uso della lingua prendono consistenza". E questo è un messaggio che ne implica un altro, e cioè che entrando nelle articolazioni di quella lingua la verità, gradevole o sgradevole, è conoscibile.