martedì 21 ottobre 2003

l'articolo di Roberto Escobar
citato al Lunedì

Il Sole 24ore, domenica 19.10.03
«The Dreamers» di Bertolucci perde la spinta dopo le sequenze iniziali e indulge a uno sterile estetismo
Fuga dal cinema quasi perfetta
di Roberto Escobar


È uno di noi, quel ragazzino magro che parla davanti alla Cinémateque, verso l'inizio di "The Dreamers" (Italia, Francia e Gran Bretagna, 2003, 120'). Come noi, nel 1968 aveva su per giù vent'anni. Per noi, appunto, il suo nome è Antoine Doinel - nato e vissuto in cinque film di Françoise Truffaut, da "Les 400 coups" (1959) a "L'amour en fuite" (1979) - anche se all'anagrafe è iscritto come Jean-Pierre Léaud. Bertolucci ce lo mostra ventenne, quel nostro ormai antico alter ego, in immagini di repertorio che riemergono dal passato, familiari e spaesanti. E ce lo mostra anche cinquantenne - non più Doinel, ma ormai solo Léaud -, in montaggio alternato con quel suo e nostro fantasma di trenta e più anni fa.
Non c'è dubbio, il film che Bertolucci trae da un romanzo di Gilbert Adair vuole essere "per noi", per noi che, seduti in platea, abbiamo imparato la vita. Ce lo ha detto e ridetto, L'autore di "Prima della rivoluzione"(1964) e "Strategia del ragno" (1970): quel che racconto è l'amore per il cinema, oltre che «lo spirito di quel momento... la certezza di un futuro di speranza». Noi lo abbiamo ben capito, e ora siamo - di nuovo e sempre - seduti in platea, nella certezza o almeno nella speranza, di "imparare" un po' di più la vita.
Ci riconosciamo in Doinel e in Léaud (più nel primo che nel secondo). Ci riconosciamo in quei folli che si siedono nelle prime file, forse per catturare le immagini uscite dallo schermo prima che tornino nel proiettore, come dice la voce narrante di Matthew (Michael Pitt), o forse per entrarci ben dentro, nella vita che vive in quello schermo.
Quelli folli siamo noi. E lo siamo anche quando discutono e litigano su chi sia più grande, se Buster Keaton o Charlie Chaplin. Così siamo stati e così siamo: convinti non che la vita al cinema sia una metafora della vita fuori dal cinema, ma proprio che questa sia una metafora di quella.
Così, come se fossimo anche noi, fra i giovani e i meno giovani parigini che difendono la Cinémateque di Henri Langlois dagli attacchi di André Malraux, ce ne andiamo lungo la Senna, discutendo di cinema e di vita con Mattew, Isabelle (Eva Green) e Theo (Louis Garrel). Poi, quando fa buio, ci facciamo portare da un gran bel "movimento di macchina" oltre un certo ponte e poi giù, lungo una scalinata che solo si intuisce. Ci fermiamo qualche passo indietro e li lasciamo andare, giusto in tempo per vedere le loro ombre che scendono e quasi affondano nel tempo, ingigantite su un muro illuminato al pari di uno schermo cinematografico.
E dopo? Che cosa succede dopo? Perché, pian piano, non ci sentiamo più dentro lo schermo? Perché ci alzeremmo volentieri dalle prime file, se il dovere del recensore - il contrario del piacere dello spettatore - non ci tenesse al nostro posto, insofferenti e con l'occhio all'orologio?
Succede,dunque, che Bertolucci non abbia più molto da dire, o che in ogni caso non riesca a dire più molto. S'è tutto speso nelle prime sequenze, e ora ha da raccontare una storia svuotata. Si trova tra le mani tre personaggi molto bellini, molto ben vestiti, molto "somiglianti" ai ventenni d'allora, soprattutto a quelli che Truffaut proprio non sopportava, e a cui alludeva nel 1973 in una lettera dura e sincera a Jean-Luc Godard. Tu, gli dice, hai intorno gente che ti applaude qualunque cosa tu faccia, gente che appartiene a «quella gauche elegante che va da Susan Sontag a Bertolucci»
Non abbiamo dubbi, noi, su chi sia davvero grande, fra Godard e Truffaut. Sarà forse anche per questo che, dopo le prime sequenze, non sentiamo più vita e non vediamo più cinema nello schermo di "The Dreamers". Ogni particolare è elegante. Ogni dettaglio degli interni è strepitoso. Ogni inquadratura è (quasi) perfetta, magari con tanto di riflessi negli specchi. Eppure non si sentono e non si vedono le anime di Matthew e di Isabelle e di Theo.
Ci sono invece i loro corpi, sui quali Bertolucci insiste e infierisce, come se al posto di una macchina da presa usasse gli strumenti di un perito settore. D'altra parte, e per restare in tema, le citazioni di vecchi classici in bianco e nero sono anch'esse meno espressive che tecniche, meno vissute che dissezionate, meno cinefile che cinecrofile.
C'è da dire poi della comicità involontaria di molte fra le inquadrature più "definitive" (piacciono a Bertlucci, queste inquadrature, come se con ciascuna di esse inseguisse una poeticità che sempre gli si sottrae). Ora, ci basta ricordare la penultima sequenza, con Isabelle che regge il tubo del gas fra i suoi due compagni, e con quel patetico sasso che rompe i vetri. Insomma, cacciata dalla porta, la vita ritorna dalla finestra.
Quanto al cinema, ci toccherà cercarlo altrove.