martedì 21 ottobre 2003

su clorofilla.it
un articolo di Livia Profeti

(ricevuto da Tonino Scrimenti)

clorofilla.it 16.10.03
I sogni che non vogliamo più fare
di Livia Profeti

(l'originale, con immagini e collegamenti, può essere raggiunto cliccando QUI)


Roma - Parlando del suo ultimo film, The dreamers, Bernardo Bertolucci si è espresso in questi termini: «In comune (con il suo Ultimo tango a Parigi) c'è Parigi e l'inizio e la fine di un'epoca. Ma in Tango gli anni '60 portavano a un finale tragico, in questo film c'è una leggerezza diversa, che in Tango non c'era, che io non avevo». Questa “leggerezza”, a parere di molti critici cinematografici, sta soprattutto nella scoperta del sesso e dell’amore, della libertà senza freni inibitori, nella speranza di cambiare il mondo dei tre giovani protagonisti - due fratelli gemelli parigini e un ragazzo americano.
Se si va a vedere il film con queste premesse se ne esce attoniti, e le prime domande che spontaneamente emergono sono: ma che film hanno visto i critici che si sono espressi con quei toni? E Bertolucci come fa a parlare di “leggerezza”? Alla fine del primo tempo si resiste a stento alla fuga, tanto sono fredde e pesanti le immagini dei due annoiati figli di intellettuali borghesi, fratello e sorella legati da un rapporto incestuoso, solleticati dal “divertimento” di coinvolgere in questo menage malato un ragazzo americano apparentemente ingenuo.
La prima parte scorre così tra masturbazioni varie, corpi nudi da spot pubblicitario, urine nel lavandino, fantasticherie di vivere come in un film, ripetendo nella vita reale scene cinematografiche famose. Nel secondo tempo si chiarisce la positività della figura del ragazzo americano, il quale però non riuscirà a spezzare il circolo chiuso e vizioso del rapporto tra i due gemelli siamesi. Eroe positivo ma inutile, perché anche se farà perdere la verginità alla ragazza non la libererà con questo dal controllo del lucidissimo fratello. E così lei, anziché seguirlo in una ricerca non violenta di libertà, si farà trascinare dal gemello inseparabile a lanciare bottiglie molotov contro la polizia, in un prologo (negato dal regista), di quella lotta armata che anni dopo suiciderà definitivamente il movimento del ’68. Tendenza suicida tra l’altro annunciata solo qualche scena prima.
Cercasi speranza disperatamente, ma in questo film, dov’è? Forse nel ragazzo americano che, come sostiene Bertolucci, rappresenta la non violenza tipica del movimento statunitense? In tal caso non sembra una speranza sulla quale riporre troppa fiducia se è vero, come dichiara proprio un regista americano, Gus Van Sant in un’intervista l’Unità di ieri, che i ragazzi  americani «degli anni ’60, quelli di “pace e amore”, sono diventati esattamente come i loro genitori, come la generazione che contestavano». Ovvero come i genitori borghesi dei due fratelli parigini, i quali, rientrando dopo un mese di assenza in una casa sporca e disastrata e sorprendendo i tre giovani nudi e ubriachi a dormire sotto una tenda da regressione infantile (alla faccia dell’”iniziazione” alla vita adulta …), non trovano meglio da fare che togliersi di mezzo (senza però dimenticare di lasciargli i soldi), rispettando così la loro ricerca di “libertà”. O meglio, direi io, lasciandogli la libertà di suicidarsi, il cui tentativo avverrà infatti subito dopo, in perfetta obbedienza al volere dei “padri” e delle “madri”: e se non muoiono che almeno si facciano molto male, perché è bene che imparino che ribellarsi non è possibile senza rischiare la morte.
Cosa ci vuol dire Bertolucci con le immagini di questo film, aldilà delle interviste che rilascia sui giornali? Che è stata questa realtà malata e perversa e francamente brutta ad essere all’origine del ’68? Sembra un po’ troppo, anche a chi il ’68 non lo idealizza come invece a parole fa il regista stesso. Stando alle sue dichiarazioni egli sostiene che il suo film è contro i “revisionismi” e per il presente, dedicato ai giovani di ora che non sognano più come quelli dell’epoca. Ed insieme a lui molti critici cinematografici esaltano la “libertà” espressa nel film e sperano che i giovani recuperino quella capacità di “sognare”. Il sospetto maligno è che siano simili ai genitori del film, a quegli adulti di cui parla Gus Van Sant. 
Inoltre The dreamers viene spesso accostato a Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, di cui viene persino definito il «fratello» (Paolo D’Agostini su La Repubblica dell’11 ottobre). D’altro canto lo stesso Bertolucci rivendica una “fratellanza” con il regista piacentino, dichiarando che hanno «percorso destini paralleli, anche se dagli anni '60 ciascuno è andato per la sua strada». Strade diverse, quindi, salvo essere entrambi oggi «due vecchi elefanti feriti», definizione sulla quale il presunto “fratello” ha ironizzato, accettandola solo nel senso della longevità.
Comunque anche Bellocchio ha rivendicato l’attualità del suo ultimo film. Opponendosi alle accuse di avere con esso sostenuto una tesi politica, ha sostenuto che la sua “infedeltà” alla vicenda storica del caso Moro è legata al presente e che quindi Chiara, la protagonista, non è la brigatista Braghetti. Questa suggestione mi suggerisce un possibile confronto tra i due film incentrato proprio sulle rispettive immagini femminili, partendo dai due diversi finali: la ragazza di Bertolucci segue il fratello ammaliato dal libretto rosso nel lancio delle molotov, mentre quella di Bellocchio libera Aldo Moro anziché ucciderlo. Una bella differenza. Se entrambi parlano del presente, in quale immagine femminile odierna converrebbe riporre la speranza?
Barbara Palombelli, in una recente intervista a Bellocchio, nel chiedergli quanto avesse influito nella sua ricerca artistica il rapporto con lo psichiatra Massimo Fagioli, gli ha ricordato che tanti registi della sua età, negli anni ’60 e ’70, si rivolsero alla psicanalisi. Il regista, sottolineando che il suo approccio iniziale non fu “estetico” ma molto concretamente dovuto alla necessità di curarsi, ha anche risposto che «c’è psichiatra e psichiatra». Bertolucci, sostenendo che «dietro ogni regista c’è un voyeur, il bambino che spiava i genitori nella camera da letto, ovvero quella scena tremenda da cui non riesci a distogliere lo sguardo, la scena primaria», rivendica la sua vicinanza all’analisi individuale di freudiana memoria, mentre di Bellocchio è ben conosciuta la frequentazione quasi trentennale dei seminari di analisi collettiva.
C’è psichiatra e psichiatra, ma c’è anche, e soprattutto, teoria e teoria. Nel 1971, con Istinto di morte e conoscenza, nasce una teoria della fisiologia e della patologia della mente umana basata sul non cosciente, la quale però non ha alcuna derivazione psicanalitica, bensì è prettamente psichiatrica. Sulla base di questa teoria Fagioli conduce dal 1975 un’originale forma di cura, formazione e ricerca che è nata proprio dalla spontanea affluenza di centinaia di “reduci” del ’68. Questo straordinario fenomeno - nel quale le stesse persone che avevano precedentemente invocato l’“immaginazione al potere” chiedevano ora ad uno psichiatra di interpretare pubblicamente i loro sogni - si è trasformato in un’ulteriore ricerca sulle dinamiche inconsce dalla quale è emersa la Scuola Romana di Psichiatria e Psicoterapia.
Nel corso di quasi trent’anni sono migliaia gli ex sessantottini che non sono finiti suicidi, drogati, terroristi o, in una rocambolesca inversione, militanti nelle file della destra politica, e nel rapporto con essi lo psichiatra Fagioli ha sviluppato una ricerca critica sul ’68 espressa in due saggi, rispettivamente del 1985 e del 1999*. È quindi lecito ipotizzare che partecipare a questa cura e a questa ricerca ha consentito a Marco Bellocchio di fare del passato un passato, e di proporre oggi un’immagine femminile nuova che può separarsi dal padre senza ucciderlo e senza uccidersi. Diversamente, il film di Bertolucci è un film sul passato, e non solo non è la rappresentazione di una speranza plausibile da proporre ai giovani d’oggi, ma è anche una bugia, nel senso di presentare una situazione storicamente determinata come “oggettiva”, eterna, quando invece non lo è.
Oggettiva è piuttosto la possibilità umana di “inventare” qualcosa di nuovo, come fisiologicamente è, o dovrebbe essere, nei giovani. Recuperare una possibilità sociale di “sognare”, come sostiene Bertolucci, sarebbe effettivamente importante, ma la ribellione giovanile degli anni ’60 e ’70 è fallita anche perché «alcuni gestivano la lucidità perversa di condurre deliberatamente gli altri alla distruzione»*, come poi è rappresentato dallo stesso regista nella figura del fratello gemello, il finto sognatore del suo film.
Alla luce di trenta anni di storia è legittimo oggi sostenere che i sogni rappresentati da Bertolucci sono ben diversi da quelli di Bellocchio, che i due film non sono affatto fratelli, che i due registi potevano anche esserlo un tempo, ma ora non lo sono più. E’ legittimo ma è soprattutto importante, perché se nella capacità giovanile di sognare risiede la speranza in un futuro migliore, è nella qualità dei loro sogni che risiede la possibilità concreta di non ripetere errori passati.

* Cfr. Il sogno della farfalla, Nuove Edizioni Romane, n.1/1999