mercoledì 26 novembre 2003

Goethe e Ortega y Gasset

La Repubblica 26.11.03
Vita di un classico in una Europa che naufraga

lettera a un tedesco
Credevamo di essere gli eredi di un magnifico passato e di vivere di rendita
C'è oggi, nel 1932, qualche europeo che ha voglia di festeggiare gli anniversari?
Per la prima volta escono in Italia gli scritti del filosofo spagnolo sul grande poeta tedesco

di JOSÉ ORTEGA Y GASSET


Esce in questi giorni, nelle edizioni Medusa, il volume "Goethe. Un ritratto dall'interno", con quattro saggi di Ortega y Gasset, tutti inediti in Italia. Anticipiamo parte dell'intervento pubblicato su una rivista tedesca ("Die neue Rundschau") nel 1932, in occasione del centenario della morte di Goethe.

Lei mi chiede, caro amico, qualcosa su Goethe, in occasione del centenario, e io mi sono sforzato di rispondere ai suoi desideri. Da molti anni ormai non leggevo Goethe - perché? - e mi sono di nuovo calato nei corposi tomi delle sue opere complete. Presto, però, ho capito che la mia buona volontà avrebbe fallito, che non avrei potuto soddisfare la sua richiesta. Per molte ragioni. La prima: non mi sento in vena di centenari. Forse lei sì? C'è oggi qualche europeo che si trovi nello stato d'animo adatto per festeggiare centenari? Il 1932 ci preoccupa troppo per trovare spazio in qualche data a quel 1832. Questo non è, comunque, l'aspetto peggiore. Rendendosi così complessa la nostra vita nel 1932, il problema più grande consiste proprio nel suo rapporto con il passato. La gente non se ne rende ben conto, perché il presente e il futuro hanno sempre una drammaticità più spettacolare. Si dà il caso, però, che presente e futuro si siano ripresentati molte volte all'uomo in modi anche più difficili e aspri di oggi. Ciò che rende così insolitamente grave la nostra condizione attuale non affonda le proprie radici in queste due dimensioni del tempo quanto piuttosto nell´altra: se l'europeo fa un bilancio della propria situazione con perspicacia, si accorgerà che non dispera del presente né del futuro, ma precisamente del passato.
La vita è un'operazione verso il futuro. Si vive dall'avvenire, perché vivere consiste inesorabilmente in un fare, nel compiersi in sé di ogni esistenza. Chiamare «azione» questo «fare» significa imbellettare il lato tremendo della realtà. L'«azione» è solo l'inizio del «fare». È soltanto il momento in cui si decide ciò che si sta per fare. (...) Non basta l'azione - che è un mero decidersi -, ma è necessario fabbricare ciò che si è deciso, eseguirlo, ottenerlo. Quest'esigenza di effettiva realizzazione nel mondo, ben oltre la nostra mera soggettività e intenzione, è ciò che esprime il «fare». Questo ci obbliga a cercare mezzi per sopravvivere, per realizzare il futuro, e allora scopriamo il passato come arsenale di strumenti, di mezzi, di ricette, di norme. L'uomo che conserva la fede nel passato non teme il futuro, perché è sicuro di trovarvi la tattica, la via, il metodo per sostenersi nel problematico domani. Il futuro è l'orizzonte dei problemi; il passato la terraferma dei metodi, delle strade che crediamo di avere ben certe sotto i nostri piedi. Pensi, caro amico, alla terribile condizione dell'uomo per il quale, all'improvviso, il passato, le certezze, diventano instabili, un abisso. Prima, il pericolo pareva trovarsi soltanto di fronte a lui; ora è anche alle sue spalle e sotto i suoi piedi.
Non sta forse succedendo anche a noi qualcosa di simile? Credevamo di essere eredi di un magnifico passato e di poter vivere di rendita. Nel momento in cui il futuro ci incalza più fortemente rispetto alle ultime generazioni, ci voltiamo indietro cercando, come eravamo soliti, le armi tradizionali; ma impugnandole ci rendiamo conto che sono spade di canna, gesti insufficienti, attrezzo scenico che si rompe nell'impatto col bronzo del nostro futuro, dei nostri problemi. E improvvisamente ci sentiamo diseredati, senza tradizione, indigenti, come neonati senza predecessori. I romani chiamavano patrizi i figli di coloro che potevano fare testamento e lasciare un'eredità. Gli altri erano i proletari, discendenti ma non eredi. La nostra eredità consisteva nei metodi, ovvero nei classici. La crisi europea, tuttavia, che è la crisi del mondo, può essere vista come la crisi di ogni classicismo. Abbiamo l'impressione che le vie tradizionali non siano più utili per risolvere i nostri problemi. Sui classici si possono scrivere libri all'infinito. L'atteggiamento più semplice di fronte a un fatto è scriverci sopra un libro. Il più difficile è vivere di esso. Possiamo vivere oggi dei nostri classici? L'Europa di oggi non soffre di una strana proletarizzazione spirituale?
Il fallimento dell'università di fronte alle necessità attuali dell'uomo - il fatto gravissimo che in Europa l'università abbia cessato di essere un pouvoir spirituel - è soltanto una conseguenza di quella crisi, perché l'università è classicismo.
Non sono proprio questi i fatti che più contrastano con lo spirito dei centenari? Nelle feste dei centenari il ricco erede rimira compiaciuto il tesoro che i secoli hanno via via distillato. È triste e deprimente, invece, contare un tesoro di monete deprezzate. Questo serve soltanto a confermarci l'insufficienza del classico. Alla luce cruda, esigente, inesorabile, dell´attuale urgenza vitale, la figura del classico si scompone in mere frasi e smancerie. In questi ultimi mesi abbiamo celebrato i centenari di due giganti - sant'Agostino ed Hegel - e il risultato è stato deplorevole. Su nessuno dei due è stato possibile pubblicare una sola pagina proficua e incoraggiante.
La nostra disposizione è esattamente opposta a quella che potrebbe ispirarci atti di culto. Nel momento del pericolo la vita scrolla via tutto ciò che vi è di inessenziale - escrescenza, tessuto adiposo -, e cerca di spogliarsi, di ridursi al puro nervo, al puro muscolo. Qui sta la radice da cui può venire la salvezza dell'Europa, nella contrazione all'essenziale.
La vita è in sé stessa e sempre un naufragio. Naufragare non è affogare. Il poveretto, sentendo che s'immerge nell'abisso, agita le braccia per mantenersi a galla. Il movimento delle braccia col quale reagisce alla propria perdizione è la cultura - un moto natatorio. Quando la cultura non è che questo, realizza il suo significato e l'umano si eleva sul proprio abisso. Dieci secoli di continuità culturale producono, però, tra i tanti vantaggi, anche il grande inconveniente della sicurezza dell'uomo, la perdita di emozione del naufragio, e la cultura si gonfia di opere parassitarie e linfatiche. Deve, quindi, sopraggiungere una qualche discontinuità che rinnovi nell'uomo la sensazione dello smarrimento, vera sostanza della sua vita. Occorre che gli vengano meno tutti gli strumenti per galleggiare, che non trovi nulla a cui aggrapparsi. Allora le sue braccia si agiteranno di nuovo in modo salvifico.
La coscienza del naufragio, essendo la verità della vita, è già la salvezza. Per questo motivo io credo soltanto ai pensieri dei naufraghi. Di fronte a un tribunale di naufraghi è necessario citare i classici perché vengano date risposte alle domande perentorie che riguardano la vita autentica.
Che figura farebbe Goethe di fronte a questo tribunale? Si potrebbe sospettare che egli sia il più discutibile fra tutti i classici, perché è il classico alla seconda potenza, il classico che a sua volta si era nutrito dei classici, il prototipo dell'erede spirituale, cosa di cui egli stesso era chiaramente consapevole; in definitiva, rappresenta il patrizio tra i classici. Quest'uomo ha fatto assegnamento sulle rendite di tutto il passato. La sua creazione somiglia non poco a una mera amministrazione delle ricchezze ricevute e, per questo, nella sua opera come nella sua vita, non manca mai il lato filisteo che cela sempre un amministratore. Inoltre, se tutti i classici sono tali, in definitiva, per la vita, Goethe pretende essere l´artista della vita, il classico della vita. Deve, dunque, giustificarsi di fronte alla vita con maggior rigore.
Come vede, invece di mandarle qualcosa per il centenario di Goethe, ho piuttosto bisogno di chiederlo io a lei. L´operazione cui sarebbe necessario sottoporre Goethe è troppo grave e profonda perché possa tentarla chi non è tedesco. Osi lei. La Germania ci deve un buon libro su Goethe. Finora, l'unico leggibile è quello di Simmel, sebbene, come tutti i testi di Simmel, sia insufficiente, poiché quello spirito acuto, sorta di scoiattolo filosofico, non si poneva problemi sull'argomento che sceglieva, ma lo assumeva come una piattaforma su cui eseguire i suoi meravigliosi esercizi di analisi. Questo è stato, d'altronde, il difetto sostanziale di tutti i libri tedeschi su Goethe: l'autore lavora su Goethe, ma non lo mette in discussione, non opera al di sotto di Goethe. Basta osservare la frequenza con la quale sono impiegate le parole «genio», «titano» e altre snervate, che usano ormai soltanto i tedeschi, per capire che tutto è ridotto a sterile bigotteria goethiana. Tenti di fare il contrario, caro amico. Faccia ciò che ci proponeva Schiller: trattare Goethe «come una zitella orgogliosa, a cui bisogna far fare un figlio per umiliarla al cospetto del mondo». Ci scriva un Goethe per naufraghi.
E non credo che Goethe avrebbe sollevato reclamo davanti a un tribunale di vitali urgenze. Probabilmente la scelta più goethiana è di farlo con Goethe. Si comportò forse diversamente col resto, con tutto il resto? Hic Rhodus, hic salta. Qui c´è la vita, qui tocca danzare. Chi vuole salvare Goethe, deve cercarlo in questa direzione.