mercoledì 5 novembre 2003

l'intervista di Ingrao citata al Martedì

La Repubblica 4.11.03
Pietro Ingrao interviene nel dibattito sulle nuove Br aperto su 'Repubblica' da Sergio Segio
La violenza di questi fantasmi ritorna con le guerre sante
l'intervista
di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - A Pietro Ingrao chiedo che cosa pensa delle Brigate rosse di oggi. «Le dico la verità: non mi interessano molto né la Lioce né gli altri. Per come li vedo io dal chiuso della mia casa, mi appaiono fantasmi, e credo che l' informazione abbia ancora parecchio lavoro da fare per ricostruire i loro percorsi e fissare la loro storia politica. Chi sono? Quali le loro vicende personali? Quali sono le loro fonti ideologiche e quali i libri che hanno sul tavolo? Dove si sono formati? Qual è l'humus che li alimenta?». Ma in attesa di queste storie, di cui comunque qualche brano comincia a emergere, qual è la stata la sua reazione al ritorno, diciamo così, delle Brigate rosse? «Collera. Provo nausea di fronte a questi neo-brigatisti che ammazzano gente innocente e pacifica sulla base di rozzi ideologismi da quattro soldi. Se davvero ci sono prove o anche gravi sospetti che abbiano assassinato D'Antona e Biagi, vanno ammanettati e chiusi in carcere e presto portati in tribunale, anche se non amo né i giudici né il carcere». Lei si chiedeva qual è l'humus che alimenta il nuovo terrorismo o quel che è sopravvissuto del terrorismo degli anni Settanta. Sergio Segio, che fu a capo di Prima Linea, avverte il pericolo che quell' humus oggi possa nascondersi nel movimento e nei settori più radicali del sindacato. Qual è la sua opinione? «Se si vuole sostenere che la Lioce e i suoi compagni sono parte e figli del movimento grandissimo che io ho visto dilagare in tutta Firenze, rispondo seccamente: no. Attenti, può anche darsi che la Lioce e i suoi complici girassero, in quelle ore, nelle vie fiorentine gremite fino all'inverosimile. Ma le centinaia di migliaia di persone che fecero grumo in quelle strade avevano in testa percorsi opposti e altre passioni. Di questo, sono certo...». ... Soltanto perché manifestavano per la pace e contro la guerra? «Non soltanto per questo, che pure conta; ma perché la grande maggioranza di quei manifestanti - moderati o estremisti che fossero - hanno in testa un'altra idea della politica: non credono che la rivoluzione - usiamo questa parola così alta e impegnativa - possa dipendere dal tagliare o meno una o due o dieci teste di economisti, per vicini che essi possano essere al potere». Alcuni - come Marco Revelli, ad esempio - ritengono che la sinistra e anche il movimento debba ancora fare molto per liberarsi dell' idea della politica come forza e, quindi, come violenza. Lo dico in modo brutale: c'è ancora nella sinistra un'idea della politica come "presa del potere", come violenza che può sostenere oggi, anche inconsapevolmente, le azioni dei terroristi e creare una pericolosa via d'uscita per minime porzioni del movimento? E' un'idea con cui la sinistra, dopo gli anni di piombo e addirittura dopo il 1989, non ha saputo fare i conti lasciando nella sua cultura quel sedimento distruttivo che ancora alimenta gli assassini della stella a cinque punte per quanto pochi, disperati e fantasmi essi possano essere. «Non sono d' accordo. Circa il rapporto tra politica, "presa del potere" e violenza, c'è un discorso ben più articolato da fare, e riguarda tutta la storia politica del Novecento, compreso Carl Schmitt. E sulla violenza, la riflessione della sinistra, con tutti i suoi limiti, è cominciata ben prima dell' 89. Io faticai molto ad accettare che i brigatisti rossi degli anni Settanta fossero comunisti». Perché? Lo dichiaravano. «Faticavo perché mi ero formato sulla convinzione che per abbattere il capitalismo, e soprattutto per costruire la nuova società socialista non valesse colpire il singolo, ma colpire il potere costituito e costruirne un altro. E ciò chiedeva un' azione collettiva, anche e soprattutto quando si giungeva all' urto decisivo: a quello che simbolicamente - e avendo in mente i film del grande cinema sovietico - si chiamava il mitico "assalto al palazzo d' inverno". Non mi è mai passato nella mente - anche quando agivo nel pieno della Resistenza italiana - di uccidere Agnelli e, nemmeno nel periodo della cospirazione, di attentare alla vita di Mussolini». E che cosa accadde quando vide "brigatisti" comunisti uccidere in nome della rivoluzione? «Respinsi a lungo, dentro di me, l'ipotesi che fossero veramente "rossi" o rivoluzionari che sbagliavano. Di quegli anni, ho nitido il ricordo di una discussione privata che ebbi con mia moglie. Mi sembra, all'indomani della morte di Mara Cagol. Mia moglie era comunista come me, e come me aveva partecipato alla lotta di Resistenza. Laura ha avuto il fratello incarcerato a Civitavecchia, e amici finiti in manette già prima del 25 luglio. Aveva partecipato alla cospirazione ed era scesa in lotta nella difficile Resistenza romana. Ma non condivideva il mio giudizio. Obiettò subito: "... dici così perché questi "brigatisti" non corrispondono all' immagine dei comunisti che hai nella tua testa. E invece no, si può essere comunisti in vari modi. Tu vedi solo dei comunisti uguali a te..."». E aveva ragione? «Aveva ragione. Io muovevo dalla lezione che avevo assorbito dall' inizio della mia esperienza cospirativa: avevo ostinatamente in testa la lotta di massa, l'azione collettiva della classe. Ricordo la distanza enorme che sentivamo verso le bombe e gli attentati degli anarchici; non solo perché sparavano e uccidevano, ma perché agivano da singoli e colpivano il singolo. E noi invece volevamo colpire la classe capitalista. Durante decenni e decenni di militanza comunista, ripeto, non mi è mai passato in mente il progetto di assassinare Agnelli e nemmeno Mussolini o Hitler. Non era per umanitarismo. Hitler mi appariva un potere collettivo, l'espressione di una classe. Bisognava contrapporre a ciò un altro potere collettivo e solo ciò poteva veramente sconfiggerlo. Questo era il grande compito per cui impegnarsi e attrezzarsi. Il resto per me, allora, era sbagliato e deviante. Mi fu oltremodo chiaro dinanzi alla tragedia di Moro». Quale fu la sua posizione in quei 55 giorni? «Fui sempre contro la trattativa con i "brigatisti"... Non per disciplina rispetto alla decisione del mio partito, ma perché avevo questa idea della politica. Ero presidente della Camera e potevo essere nel mirino anche io. Scrissi una lettera per mia moglie in cui esigevo, se fossi caduto nelle mani dei "brigatisti", di respingere ogni "scambio" che mi riguardasse, anche se io dal carcere brigatista l' avessi invocato, cedendo alla paura della morte. Ricordo quella mattina del marzo '78, quando stava per aprirsi il dibattito difficile sul nuovo governo Andreotti. E invece, alle 9,20 (mi sembra), nel mio ufficio mi giunse come un fulmine la telefonata di Cossiga che mi annunciava il rapimento di Moro e gli assassinii di via Fani. Da quel momento ebbi solo un assillo: che ci fosse presto, al più presto, un governo riconosciuto alla testa del Paese. E perciò, in aula, feci tutto ciò che era nelle mie possibilità per condurre a rapida conclusione quella seduta della Camera che doveva varare il nuovo governo. Ugo La Malfa, per questo, mi rimbrottò». Questa era la sua riflessione, ma come giudica la riflessione collettiva che la sinistra fece di quegli avvenimenti? «Penso che sui "brigatisti" degli anni Settanta ci sia stata a sinistra una riflessione vasta e assai articolata: sulla scia dell' obiettivo "rivoluzionario", e anche sul "leninismo", sull'idea che esso ha del potere e sugli errori fatali che segnarono il suo cammino. E non a caso il tempo dei brigatisti rossi è anche l'epoca in cui comincia a precipitare il collasso dell'Urss, finisce nel fango l'aggressione sovietica all'Afghanistan e riparte l'offensiva vittoriosa del capitalismo occidentale sotto la guida di Reagan e della Thatcher». Il leninismo, per quanto possa sembrare paradossale, è ancora vivo nei documenti delle Br di oggi. Le chiedo: la logica delle guerra può ancora attecchire, far proseliti? Esiste questo pericolo? «Non è certo il "movimento dei movimenti" - per ricorrere qui all' interessante intervista rilasciata a voi domenica da Fausto Bertinotti - a dover rispondere a questa domanda. Non c' è dubbio che il problema delle armi e dell' uccidere in politica torna oggi in una dimensione grave e grande. Ma è un problema che non interpella il "movimento", ma il capo della più grande potenza del mondo, che assume come pubblico obiettivo - e lo proclama e santifica dinanzi al mondo - la strategia della "guerra preventiva". È su questa "santificazione" delle armi come "prevenzione" salvifica e cuore della politica che bisogna riflettere, perché questa strategia riporta sulla cima degli altari la "guerra": questa parola sempre terribile, ma che oggi rimanda e ha a sua disposizione mezzi inauditi, messi alla prova finora solo in parte piccolissima. Questo mi allarma più della Lioce, e riguarda processi e delitti assai più grandi. E forse fornisce a quel pugno di neo-brigatisti pretesti stupidi per le loro povere farneticazioni. Posso anche sbagliarmi, ma queste farneticazioni non inquineranno o infetteranno un movimento che mi sembra abbia compiuto, in anni difficili, il faticoso cammino di un pacifismo, oggi consapevole che l'identificazione della politica con la guerra - nell'era ormai dell' atomica - è stato il disastro del mio secolo».
Pietro Ingrao, 88 anni, leader storico della sinistra, è stato presidente della Camera all'epoca del sequestro Moro.