mercoledì 5 novembre 2003

la scienza secondo Paolo Rossi

L'Unità 05.11.2003
Per una scienza libera
di Paolo Rossi*


Paolo Rossi ne è convinto, non sempre la storia si sviluppa con continuità. Talvolta il suo flusso è puntuato, segnato qui e là da forti discontinuità. Una di queste soluzioni di continuità è rappresentata da quella che lui stesso definisce, non a caso, «la rivoluzione scientifica». La novità, straordinaria nel senso letterale del termine, che nell’ambiente culturale dell’Europa del Seicento hanno introdotto Galileo, Cartesio, Newton. Quella rivoluzione, nei successivi quattrocento anni, ha informato di sé la storia del nostro continente e, poi, del mondo intero.
Paolo Rossi, nato a Urbino e laureatosi con Eugenio Garin, è professore emerito in Storia della filosofia presso l’università di Firenze e storico, tra i maggiori del mondo, della scienza. Quest’anno compie ottant’anni. E domani il suo compleanno sarà omaggiato, come si conviene a un grande studioso, con un convegno a Forlì.
Professor Rossi, perché in polemica con molti «continuisti» lei parla di «rivoluzione scientifica»?
«Vorrei precisare che il termine “rivoluzione scientifica” non l’ho inventato io. Era già in uso da tempo, anche se alcuni lo hanno criticato. Io, al contrario, sono convinto che si debba parlare di “rivoluzione scientifica” perché l’attività di Galileo e di tanti altri filosofi naturali nel Seicento ha rappresentato una forte novità. Come accade, appunto, nelle rivoluzioni. Noi non usiamo la parola come nella tradizione dell’astronomia, per cui rivoluzione è il ritorno al punto di partenza. Noi attribuiamo alla parola il significato che in sede storica ha acquisito dopo la rivoluzione americana e dopo la rivoluzione francese, di rottura con il passato. Per cui se uno elenca i punti di rottura con il passato dell’attività degli scienziati del Seicento ne trova almeno cinque o sei che sono di non ritorno, dove si affacciano nella storia cose nuove. Tra queste cose nuove c’è l’immagine della natura, in cui non c’è più distinzione di essenza tra corpi naturali e artificiali. Un’altra novità è il rapporto che si instaura tra gli studiosi, che formano una sorta di autonoma Repubblica della Scienza, che trascende i confini delle nazioni e dove non esiste l’ipse dixit».
Tra i caratteri fondanti e rivoluzionari della «scienza nuova» c’è dunque la dimensione della comunità dei filosofi naturali che la sostengono? Una dimensione che travalica i confini nazionali e diventa europea?
«Certo, uno dei punti di rottura tra la cultura scientifica del Seicento e la cultura precedente è proprio questa dimensione continentale e tendenzialmente globale. Uno dei filosofi del Seicento che io amo e ho molto studiato, Francis Bacon, conosciuto in Italia come Francesco Bacone, usò a questo proposito un concetto che poi, ai nostri tempi, ha avuto una risonanza straordinaria: il globo intellettuale deve coincidere, al limite, con il globus mundi, ovvero con l’intero globo terracqueo. Fu, quello di Francis Bacon, un modo di anticipare il tema della globalizzazione. Facciamo attenzione a questo concetto. Francis Bacon si era convinto che si fosse affacciato sul proscenio un tipo di cultura che avrebbe condotto il mondo all’unità del sapere. Al medesimo sapere diffuso in tutto il mondo. Lui, naturalmente, si faceva araldo di questa tesi, che era anche una speranza. Le previsione di Francis Bacon si è poi avverata. Non c’è dubbio, infatti, che la globalizzazione è ormai pienamente attuata nel campo del sapere scientifico. Le dirò qualcosa che può sembrare assolutamente banale: ma un ragazzo che intende oggi imparare la genetica si prepara sullo stesso manuale, magari scritto in lingua diversa, sia che studi in un’università africana, sia che studi in un’università giapponese o europea. Voglio dire che non c’è una genetica spagnola diversa da una genetica statunitense. C’è un unico sapere genetico in tutto il mondo. Anche se tutto ciò ci sembra ovvio, a ben vedere costituisce un fatto davvero straordinario. Non è stato sempre così. Prima della rivoluzione scientifica non era così».
Tuttavia la scienza non è uniformemente presente in tutto il mondo. E un giovane africano che intende studiare genetica ha più difficoltà di un giovane giapponese o europeo.
«È vero che la scienza oggi è limitata ad alcune parti del mondo. È vero che ci sono parti del mondo in cui ancora non c’è scienza o non c’è ancora scienza a sufficienza. Ma il processo di globalizzazione del sapere scientifico continuerà ad andare avanti. È un processo che non può essere arrestato».
L’universalità del sapere scientifico è intrinseca alla scienza stessa, è una componente essenziale dell’epistemologia scientifica, o è una costruzione storica, il frutto di una serie fortunata di contingenze? È è possibile immaginare una qualche forma di scienza nazionale, chiusa, locale?
«Direi proprio di no. Non è possibile immaginare una scienza nazionale, chiusa in un luogo. Dei tentativi in tal senso, per la verità, sono stati esperiti. E sono stati esperiti proprio nel XX secolo, nella Germania di Hitler e nell’Unione Sovietica di Stalin, dove c’era, rispettivamente, una fisica ariana che si contrapponeva alla fisica di Einstein - che nel frattempo era emigrato negli Stati Uniti - e c’era una genetica “non borghese”, diversa da quella sviluppata nel resto d’Europa. Questi tentativi di costruire una scienza nazionale o di classe, frutto in genere di interventi esterni alle comunità scientifiche, hanno avuto e avranno sempre, se saranno ritentati, degli effetti assolutamente deleteri. Bloccano lo sviluppo della scienza o di una disciplina scientifica, come è accaduto alla fisica tedesca nel periodo nazista. E come è accaduto alla genetica sovietica, che ha impiegato circa trent’anni per rimettersi al passo».
Lei pensa che un altro dei caratteri innovativi della cultura scientifica sia stata la rivendicazione di autonomia, che nel Seicento era una rivendicazione rispetto al potere religioso e che in seguito si è manifestata anche rispetto ad altri poteri?
«Certo, penso che anche questo sia un punto essenziale. Ed è un punto che non ha a che fare con una scienza particolare, con un teorema, con un esperimento o con una serie di dimostrazioni. Riguarda quella che si chiama “l’immagine della scienza”. Ovvero il problema di cosa sia la scienza e cosa deve essere. Mi lasci ribadire che questa dell’autonomia è un punto importantissimo, decisivo. È il punto dirimente, che rende o non rende la scienza elemento costitutivo di una civiltà. Quando la scienza moderna si è affacciata in Europa è accaduto che dei gruppi di uomini e di donne (poche, dati i tempi) si riunissero fuori dalle università, fuori dai conventi - cioè dai luoghi dove veniva elaborata la cultura - perché avevano esigenze diverse rispetto alle opportunità che offrivano i luoghi del sapere tradizionale. Nei luoghi in cui si riunivano, le Accademie - come la Royal Society o la stessa Accademia dei Lincei - fu stabilito un patto. Un patto ancora una volta banale in apparenza: in questo luogo non si parla né di politica né di religione. Qui restano fuori quegli elementi che sono essenziali nel più grande e drammatico e sanguinoso mondo fuori dalle nostre piccole Accademie. E, inoltre, qui c’è assoluta libertà di parola. Qui non vale l’autorità di chi parla. Qui non vale se uno è famoso oppure no, se ha ottant’anni oppure no. Qui vale solo quello che una persona dice. E ciò che una persona dice può e deve essere discusso da tutti e deve essere provato mediante esperimenti. Sensate esperienze e certe dimostrazioni, sosteneva Galileo Galilei. Faccio notare che questo non è solo un nuovo modo di dar vita a un sapere, ma è un nuovo modo di stare insieme. Che ha a che fare, fortemente, con ciò che noi chiamiamo democrazia. Certo, è una democrazia sperimentata in un mondo piccolo e artificiale. Ma è comunque una grande conquista. E una grande speranza. Una speranza, coltivata da filosofi come Hobbes o come lo stesso Cartesio, che questa democrazia potesse realizzarsi nel “grande mondo”, dove gli uomini hanno una certa propensione a scontrarsi e spesso a scannarsi».
Un altro punto di rottura della «nuova scienza» rispetto al vecchio «mondo di carta», come lo chiamava Galileo, è l’attacco a quello che Lei definisce il «paradigma della segretezza». Il sapere pubblico e trasparente è dunque coessenziale alla cultura scientifica?
«Lei ha toccato il punto importante. Per i fondatori della scienza moderna il sapere non è di pochi ma è, in linea di principio, di tutti. Nella cultura scientifica il segreto è un disvalore. La non comunicazione è un disvalore. La conoscenza scientifica va, per essenza, integralmente comunicata, perché il sapere scientifico è e deve essere praticabile da tutti. Oggi la fisica è, in linea di principio, accessibile a tutti. Chiunque, con più o meno sforzo, può arrivare al sapere fisico. Naturalmente questo non significa che tutti ci arrivino. Ebbene se solo si riflette per un momento sul fatto che per millenni il sapere vero era concepito come segreto, ermetico, accessibile in linea di principio a pochi, allora ci si rende conto che questo è un altro degli elementi che autorizzano a parlare di “rivoluzione scientifica”, di qualcosa di profondamente nuovo che si è affacciato nella storia. C’è, a ben vedere, qualcosa di letteralmente dissacrante nell’affacciarsi di questo sapere integralmente comunicabile a tutti. Perché in questo nuovo sapere non ci sono affermazioni sacre, non ci sono testi sacri. Tutto può e deve essere sottoposto, in linea di principio, a discussione. Nella nuova scienza la comunicazione è un valore. Un altro valore democratico. Tutto questo, non va nascosto, è nato in Europa. E si è diffuso in tutto il mondo. Certo, non sempre la cultura scientifica che ha la comunicazione integrale e quindi la trasparenza democratica come valori si è diffusa in modo che queste convinzioni accompagnassero lo sviluppo dell’intera società. Tuttavia da quattrocento anni c’è un pezzo di società in cui la comunicazione ha più valore della segretezza, in cui il linguaggio deve essere in linea di principio chiaro e accessibile - Descartes diceva che dobbiamo parlare come amici che fanno conversazione tra loro e nella Royal Society si diceva che bisogna parlare più come ai mercanti che come ai filosofi. E questo semplice fatto rende la “rivoluzione scientifica” un esempio costante per l’intera società. Un esempio da non disperdere».

* Storico della scienza