sabato 8 novembre 2003

Luciano Canfora: il terrorismo una patolologia

Corriere della Sera 8.11.03
Perché è giusto parlare del terrorismo come di una patologia
di Luciano Canfora


Non immaginavo che psicologia e psicanalisi potessero considerarsi forme minori di conoscenza. Ricordo che in edizioni d’epoca staliniana della pur pregevole «Grande Enciclopedia Sovietica», la psicanalisi era definita «pseudo-scienza borghese»; ma non penso che quella fosse una veduta accettabile. Invece secondo Giovanni Sartori - che per questo mi chiama in causa - sarebbe degno di cultori di psicologia o di psicanalisi osservare (l’ho fatto rispondendo a una domanda del Foglio ) che per il terrorismo Br sarebbe un grande aiuto l’union sacrée di tutto l’arco un tempo definito «costituzionale». Per parte mia non ho nulla contro quelle due discipline, ma credo che in questa discussione non c’entrino. Il ragionamento, buono o meno buono, è esclusivamente politico. È ben noto infatti che della «dottrina» Br fa parte il martellamento sul «tradimento» perpetrato dalle forze di sinistra riformiste (in tale categoria essi accumulano tutte le sfumature esistenti), «omologate» - essi dicono - al «potere».
È ben noto che la «dottrina» Br ha il costante risvolto pratico di colpire proprio a sinistra: le uccisioni di Guido Rossa e di Moro, di D’Antona etc. lo dimostrano. Quando è in corso uno scontro - e questo è il nostro caso - è importante chiedersi quale vantaggio, in particolare quale vantaggio propagandistico, trarrà, dalla nostra azione, l’avversario. Credo sia una regola polemologica molto nota.
Quanto alla storia del terrorismo, conviene ribadire che esso è fenomeno di lunga durata e coessenziale a quasi tutte le società della storia sin qui conosciuta. Citerò per prima una acuta, e realistica, osservazione di Bettino Craxi, fatta in Parlamento, che molto infastidì Giovanni Spadolini. In piena crisi dell’«Achille Lauro», disse Craxi, in difesa di Arafat: «Anche Mazzini organizzava attentati» (per l’esattezza disse: «Anche Mazzini progettava delitti» basta andarsi a guardare i giornali del 7 novembre 1985).
Dagli Usa sotto minaccia «antrace» alla Spagna alle prese coi Baschi dell’Eta, alla Francia sempre inquieta per il terrorismo corso, dall’Olanda alla Svezia, dalla Cina all’India al Pakistan, alla Russia, alla antichissima liberale Inghilterra, i terrorismi - nelle più varie forme e con le più varie matrici - sono onnipresenti: con ben maggiore incisività e capacità di collegamenti internazionali che non al tempo dell’endemico terrorismo anarchico ottocentesco e proto-novecentesco.
Per questo è ragionevole parlare di fenomeno «fisiologico» o, se si preferisce, di una patologia di fatto inestirpabile.
Non è a New York che s’è prodotto, due anni fa all’incirca, il più grande attentato terroristico del secolo? Bush ha imboccato la strada della «guerra mondiale» al terrorismo. Quale prova più convincente dell’enormità del fenomeno? Certo, al confronto, il caso italiano è piccolo, piccolo. Ed è un peccato che, per affrontarlo, si reagisca in modi impulsivi e, com’è il caso della proposta lanciata dal presidente del Consiglio, semplicistici.