mercoledì 30 luglio 2003

Maria Zambrano

Il Giornale di Brescia 30.7.03
Una pensatrice «sanguigna» come la sua Spagna
TUTTA LA FORZA DELLA TERRA IBERICA NELLE IDEE DI MARIA ZAMBRANO
Le donne e la filosofia: Maria Zambrano
di Maria Mataluno

Maria Zambrano aveva già deciso di abbandonare la filosofia quando, una mattina di maggio, un raggio di sole penetrò attraverso una tendina nell’aula dell’Università di Madrid dove seguiva una lezione di Xavier Zubiri. Mentre il filosofo era intento a spiegare le Categorie di Aristotele, Maria, colpita in volto da quel fascio di luce, si sentì invasa da una sorta di rivelazione, o meglio, da una «penombra toccata d’allegria». Capì allora che non aveva nessuna ragione per abbandonare la filosofia, ma che anzi proprio in quella penombra - del cuore, più che della mente - avrebbe trovato un nuovo punto di partenza per la sua riflessione. L’estate seguente s’immerse nella lettura dell’Etica di Spinoza e della terza Enneade di Plotino. Profondamente radicata nella temperie intellettuale della Spagna del suo tempo e orgogliosa delle sue radici europee, sensibile interprete del pensiero di Unamuno e della poesia di Machado, Maria Zambrano trascorse la sua giovinezza tra Malaga e Madrid, dove si laureò in filosofia sotto l’ala protettrice di Ortega y Gasset e di Zubiri e lavorò come assistente all’università dal 1931 al ’36, riuscendo ad aprirsi faticosamente una strada in un ambiente fortemente maschilista e in un’epoca in cui una filosofa «era quasi una "donna barbuta", un’eresia, una curiosità da circo». La sua vita fu costellata da una serie di crisi, che descrive nell’autobiografia Delirio e destino: la prima fu quella «malattia creativa» che tra il 1928 e il 1929 la spinse a isolarsi e a interrompere gli studi. La seconda, la più densa di conseguenze per la sua vita e il suo pensiero, fu rappresentata dall’esilio: dopo aver partecipato alla guerra civile, nel ’39 Maria dovette fuggire dalla Spagna caduta nelle mani dei franchisti. Cominciò allora una peregrinazione che in quarantacinque anni la portò dal Cile al Messico, da Parigi a Roma - nelle due capitali europee strinse rapporti di amicizia con intellettuali come Cioran, Sartre, Camus, Moravia e Cristina Campo -, da Cuba a Puerto Rico, dal Giura francese alla Svizzera; finché, negli anni Ottanta, non ritornò a Madrid, dove rimase per il resto della sua vita scrivendo e insegnando. L’esilio fu da lei vissuto come un’esperienza limite: in quell’essere «gettati nel mondo», abbandonati a un «deserto senza frontiere» per una scelta non propria, credette di riconoscere l’essenza stessa della condizione umana. «Non concepisco la mia vita senza l’esilio che ho vissuto - scriverà nel 1989 -. L’esilio è stato la mia patria, come la dimensione di una patria sconosciuta ma che, una volta conosciuta, diventa irrinunciabile. (…) Credo che l’esilio sia una dimensione essenziale della natura umana, ma dicendo questo mi mordo le labbra, perché vorrei che non ci fossero esseri esiliati, ma che tutti fossero esseri umani e al tempo stesso cosmici, che non si conoscesse l’esilio». Altrettanto dolorosa ma anche altrettanto feconda fu per Maria la terza crisi: il «parricidio» nei confronti del suo maestro, Ortega y Gasset. Nemica di ogni sistema filosofico, che considerava «un castello di ragioni, muraglia chiusa del pensiero di fronte al vuoto», Maria Zambrano dedicò tutti i suoi sforzi intellettuali alla costruzione di un pensiero vivente, capace di confrontarsi con la realtà umana in tutta la sua interezza, di esplorare non solo il mondo della razionalità e del pensiero, ma anche quello del cuore, del «logos che scorre nelle viscere». «Il pensiero, a quanto sembra, tende a farsi sangue. O forse è che il sangue deve rispondere al pensiero, come se l’atto più puro, libero, disinteressato compiuto dall’uomo dovesse essere pagato, o quanto meno legittimato, da quella "materia" preziosa tra tutte, essenza della vita, vita stessa che scorre nascosta». Ortega y Gasset l’accusò di «mancanza di obiettività». Ma alla trasparente razionalità del cogito cartesiano Maria continuò a opporre con determinazione il cuore, con la sua oscurità e il suo mistero; davanti al sole della ragione metteva l’aurora, promessa di luce che emerge dalle tenebre della notte e di esse reca ancora in sé le tracce. «La prima cosa che avvertiamo nella vita del cuore - scrisse - è la sua condizione di oscura cavità, di recinto ermetico; è Viscere, interiora. Il cuore è il simbolo e la massima rappresentazione di tutte le viscere della vita, il viscere in cui tutte trovano la loro unità definitiva e la loro nobiltà. (…) Il cuore è il viscere più nobile perché porta in sé l’immagine di uno spazio, di un dentro oscuro, segreto e misterioso che, in alcune occasioni, si apre». Per conoscere una simile realtà occorre elaborare una nuova forma di sapere, un sapere dell’anima, che non è tanto una disciplina intellettuale - le domande a cui esso tenta di rispondere non sono «che cosa è il mondo?» o «che cosa sono le cose», ma «chi sono io?», «da dove vengo?», «qual è il mio destino?», - quanto un’attitudine a unificare l’uno col molteplice, l’essere con la vita, l’uguaglianza con la differenza. A questo scopo possono essere utili, secondo Maria Zambrano, la Confessione e la scrittura, alle quali dedicò le sue pagine più originali. Come la Confessione rappresenta la possibilità di ricostruire la propria identità raccontandosi a un interlocutore privilegiato, così la scrittura è un mezzo grazie al quale l’uomo rende comunicabile il proprio sapere più intimo, qualcosa che non sa chiarire fino in fondo, ma che deve comunicare ad altri, lasciando che siano essi ad attribuirle un senso. Non si tratta solo di una necessità, ma anche di un dovere, di un obbligo di fedeltà verso ciò che è nascosto e che chiede di venire alla luce. «Scrivere - si legge in un testo del 1961 - è difendere la solitudine in cui ci si trova, è un’azione che scaturisce unicamente dall’isolamento effettivo, non comunicabile, nel quale proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta dei rapporti tra di esse». Lo stesso principio che è alla base della letteratura è, secondo Maria Zambrano, anche il motore della vita politica. Come la scrittura nasce dal desiderio dell’anima di essere «tratta fuori dal silenzio», così lo spazio della democrazia ha origine dal «desiderio di forma» di chi si sente umiliato o emarginato, come le donne. La democrazia non promette alcuna utopia, ma solo la possibilità di prendere parte al gioco comune, così come il singolo orchestrale partecipa all’esecuzione di una sinfonia. Per questo «l’ordine di una società democratica è più ricerca di un ordine musicale che architettonico». La vera rivoluzione, dunque, sarebbe far sì che la storia, catena di violenze che generalmente prende inizio da un atto di fondazione, un giorno nascesse invece dalla musica, ossia da un ordine che armonizza la complessità e la diversità nella sapiente architettura del contrappunto.