mercoledì 24 dicembre 2003

bioetica

La Repubblica 24.12.03
Lettere
Figli e felicità tra bioetica e biopolitica
di CORRADO AUGIAS


Caro Augias, non mi meraviglio che il Nobel per la medicina David Hubel, nell'intervista a Piergiorgio Odifreddi pubblicata il 17 dicembre, "creda" che "l'etica non è soggetta alla logica"; mi meraviglia piuttosto il fatto che egli - che accusa chi non la pensa come lui di "motivazioni irrazionali" o di sostenere "insensatezze" - non fornisca alcun argomento a suffragio del suo convincimento, se non quello (obiettivamente deboluccio, almeno da un punto di vista empirico) di conoscere una amica che ha usato l'ovulo della propria sorella, ha avuto un figlio ed ora è felice.
Non può non essere qualificata come arroganza quella con cui non pochi premi Nobel - per aver fatto scoperte straordinarie, ma in campi strettamente scientifici e obiettivamente settoriali - si arrogano spesso il diritto di discettare di etica e di filosofia, sapendone poco e non riuscendo affatto a motivare le loro (pur soggettivamente legittime) affermazioni?
Non crede che siano requisiti irrinunciabili di un pensiero che voglia ragionare seriamente e laicamente quello di argomentare rigorosamente le proprie posizioni e di esaminare con altrettanto rigore le posizioni altrui, senza denigrarle grossolanamente?
Professor Francesco D'Agostino
Presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica


Mi congratulo con il professor D'Agostino per le conclusioni del suo Comitato sul "testamento biologico" e convengo che l'argomentazione di David Hubel, riferita a un singolo caso, non aveva molto peso scientifico. Era una considerazione di senso comune che ha anch'esso un suo valore, intendiamoci, ma non prova granché. Non sarebbe giusto però isolare la frase dal contesto dell'intervista e dell'intero numero del "Diario" di Repubblica dedicato alla Biopolitica, tema di particolare rilievo in un paese come il nostro.
Ritengo che un buon metodo per cercare di ragionare su argomenti così difficili sia quello di tenere separate le considerazioni scientifiche da quelle religiose, campi che raramente coincidono. Se parliamo dei valori della vita in senso lato non si può prescindere, per esempio, dall'osservazione di Luce Irigaray (teorica del pensiero della differenza) quando dice: «Il ripiegarsi in un individualismo meschinamente possessivo e gaudente sono il risultato di una mancanza di cultura della stessa vita e della sua condivisione». Chi può dirsi non d'accordo con questo assunto? Lo Stato dovrebbe allora, con la forza delle leggi, allontanare i cittadini da questa povera visione della vita? Non può, se non vuole diventare uno di quegli Stati "etici" che il Novecento ha tragicamente conosciuto.
La legge sulla procreazione appena approvata va in quella direzione? Purtroppo sì. E ci va nel modo peggiore, con argomentazioni che non ammettono replica. Ha scritto su queste pagine Giulio Giorello: «Bisognerebbe fare giustizia di battute del tipo "Dio lo vuole" o "non lo vuole". Se uno ha un filo diretto con un'entità spiritualmente superiore e scambia il proprio autoritarismo per infallibilità, ogni possibilità di confronto e di discussione si chiude in partenza». Christian de Duve ("La vita che evolve" - Cortina ed.) scrive: «Rifiutarsi d'intervenire dove la scienza ci permette di farlo per superare i limiti dovuti alla cattiva sorte è irresponsabile».
Ecco un principio che mi sembra molto "etico", molto umano, molto adatto all'atmosfera di questi giorni.