mercoledì 7 gennaio 2004

Baudrillard sull'arte
citato al Martedì

una segnalazione di Annalina Ferrante

La Repubblica 6.1.04
Intervista a Baudrillard di cui esce "Architettura e nulla"
Se l'arte muore per eccesso

"Il taglio è rappresentato da Duchamp che ha messo in campo la promiscuità tra l'oggetto e il museo"
"Ognuno crea la propria espressione e non ha più tempo di ascoltare gli altri producendo così un cortocircuito"
intervista di PICO FLORIDI


VENEZIA. Jean Baudrillard è a Venezia mentre esce in Italia il suo colloquio con Jean Nouvel (Architettura e nulla, Electa, euro 15,00). Altra recente edizione italiana è Power Inferno (Raffaello Cortina, euro 8.50), il suo saggio su globalizzazione e terrorismo.
Lo abbiamo incontrato al convegno su "Globalizzazione, Identità culturale e arte", organizzato dalla Biennale con l'Ambasciata di Francia e il Goethe Institut.
Vorrei prendere spunto dalla sua esperienza artistica. Da qualche anno lei è diventato fotografo. Il protagonista assoluto della sua arte è il dettaglio.
«Sì il frammento, il dettaglio. L'insieme mi pare non abbia più senso, lo stesso avviene con le ideologie, o con la storia lineare che ha una finalità. Sono entità compromesse. La singolarità del mondo non è più nel senso, nei grandi significati che gli si danno, è nel dettaglio sensibile che può essere creato anche a livello di immagine. C'è una singolarità nuova, contenuta nel dettaglio, nel frammento di mondo. Nell'esistenza personale tutto è ancora possibile».
Concentrare l'attenzione sul dettaglio le dà la possibilità di forzare il reale?
«È piuttosto l'idea di uscire dal reale, dai grandi insiemi dalla razionalità. Quando ci si tuffa nel dettaglio, quando si frammentano le cose, si esce dal reale, dal principio di realtà e si trova la singolarità. È da tempo che si vedono i dettagli nelle opere d'arte classica, grazie alla riproduzione. Quella di cui parlava Benjamin non è solo la riproduzione tecnica ma è anche questo découpage, questa frammentazione che non mantiene più il senso generale, al quale non si dà più un significato generale, ma che conserva sempre la magia nel dettaglio».
Questo le permette di creare una scena diversa da quella del reale?
«Sì, una scena diversa: nella grande arte classica c'erano le scene trascendenti, la spiritualità. Noi l'abbiamo perduta, non possiamo cercare nell'aldilà, dobbiamo rivolgerci a questo mondo, allora scorriamo dal senso generale verso il dettaglio per trovare un'altra scena, una forma di poetica che consiste nell'inventare un'altra scena, uscire dal reale».
Allora quando avviene che l'oggetto reale si trasforma in immagine e quindi in opera d'arte?
«Quando si entra nel dettaglio si ha a che fare con dei soggetti e non con degli oggetti. È per questo che non fotografo gli esseri umani, i volti, ma piuttosto delle cose inanimate, degli oggetti, delle situazioni. Se si riesce a fare il vuoto intorno all'oggetto, a farlo uscire dal contesto del significato, portandolo in fondo alla sua logica, allora può apparire come oggetto. Bisogna eliminare, o tentare di eliminare il soggetto con tutto il suo carico di idee, di pregiudizi, di coscienza. È un'utopia, ma è il tentativo di far venire a galla l'oggetto puro, liberato dal soggetto».
Lei pensa che l'arte rischi l'estinzione in una società dove tutto è visibile?
«Nella visibilità totale, in quella che io chiamo realtà integrale, si è nell'assoluta trasparenza, non c'è più nulla di segreto. L'arte esiste se ci sono delle cose segrete, qualcosa che non viene detto e che non si può dire, mentre adesso non c'è nulla di cui non ci sia nulla da dire, si può dire tutto su tutto. Questo commento, queste chiacchiere indefinite, questa ripetizione delle cose, non seducono perché non c'è nulla di segreto, non c'è illusione e l'arte oggi non cerca l'illusione. Viviamo in un realismo assoluto e tecnologico, che non consente segreti».
Quindi qual è il ruolo dell'arte visiva in un mondo che si riposa sulle glorie dell'immagine?
«Non so quale possa essere questo ruolo perché il lavoro sulla performance visiva è assorbito dalla visualità della pubblicità, dei media e di tutto il resto. Tutta l'arte o la maggior parte dell'arte che si vede alla Biennale è virtualmente decorativa, potrebbe essere venduta nei grandi magazzini. Del resto è una cosa che si fa normalmente, c'è solo il decreto di chi afferma che è arte che ne distingue la specificità. Ciò che resta è il discorso sull'arte, la storia dell'arte e l'idea di arte».
Se questo è vero, chi è che incarna la forza critica, il polo di resistenza?
«L'arte è solo una variante di un sistema generale di produzione, di messa in scena, di performance. Non ci sono poli di resistenza a quel livello, spero ci siano altre cose che resistono al di fuori dell´arte, che non costituisce più una scena alternativa».
E il messaggio dell'arte concettuale?
«Il messaggio dovrebbe essere che non c'è più nulla da dire. Si visualizza l'idea dell´arte, siamo al limite estremo, dove l'arte è al minimo, non è più forma è un'idea. È una maniera di salvare un'idea dell'esistenza dell'arte fino al limite in cui non c'è più nulla da rappresentare, è un'arte dell'appena visibile».
Cos'è per lei il complotto dell'arte?
«È un complotto di cui tutti sono complici, chi genera arte e chi la fruisce, dando vita a una spirale d'intossicazione. Non voglio fare accuse di manipolazione, ma c'è una forma di ricatto. Se non vi riconoscete mentre guardate l'arte e mentre la capite, allora ne siete esclusi. È una servitù volontaria».
Lei ha affermato che abbiamo finito per avere un eccesso di arte, ma non sarà che non riusciamo a vederne i confini perché siamo in un mondo dove tutto è arte, dove tutto può essere arte?
«Se l'arte è ovunque, allora cessa di esistere. La cultura è la forma globalizzata dell'arte e di molte altre cose. La morte dell'arte è un paradosso: l'arte muore per eccesso di arte. Il taglio è rappresentato da Duchamp che ha messo in campo la democrazia assoluta, la promiscuità totale fra l'oggetto e il museo, per cui qualsiasi cosa può entrare nel museo. Non ci sono più posizioni singolari, ognuno crea le sue regole del gioco. Tutti possono produrre, non ci sono più segreti, tutti possono affermare qualcosa e hanno il diritto di farlo. Dal punto di vista dell'artista, il tema centrale diventa il fatto che sta dipingendo, non più l'oggetto reale.
Tutti diventano creatori, c'è una mobilitazione generale che porta al paradosso per cui non c'è più un destinatario, tutti sono trasmettitori. Ognuno crea la propria espressione e non ha più il tempo di ascoltare gli altri. È una forma eccessiva in cui l'arte scompare per eccesso, non per mancanza, creando un cortocircuito al senso stesso. La conseguenza per il consumatore è che dal momento che l'artista dipinge per il fatto che dipinge, lo spettatore va a vedere il fatto di andare a vedere, e quindi consuma la sua stessa cultura al secondo grado. Così l'uomo non si coltiva ma si accultura, e si autoconsuma».
C'è una violenza della globalizzazione che si trasmette attraverso l'arte?
«Quella che si trasmette è la violenza della globalizzazione. L'indifferenza a tutto, la visibilità totale, la trasparenza passano anche attraverso l'arte. C'è una violenza particolare dell'arte che potrebbe rivoltarsi contro la globalizzazione, ma ne sono meno sicuro. L'arte di oggi è violenta non solo per il contenuto delle immagini ma per l'irruzione che fa, nella misura in cui mette fine alla realtà».