venerdì 30 gennaio 2004

Immanuel Kant e Benjamin Constant
con l'aggiunta di Sant'Agostino e di Jenkélévitch

Corriere della Sera 30.1.04
«Siate sempre sinceri». Ma Constant non era d’accordo con lui


Con il titolo Le droit de mentir, il diritto di mentire, un editore francese di libri tascabili, Mille e une nuits, pubblica per due euro i testi di una bizzarra controversia. Ne furono protagonisti Immanuel Kant e Benjamin Constant. Non si tratta di una scoperta (quei testi esistono anche in traduzione italiana, editi da Bruno Mondadori), ma è un’occasione. L’occasione di toccare un tema - quello della menzogna, e dei suoi rapporti con la vita pubblica, la politica, la società - che nessuno, suppongo, sarebbe così ardito da definire inattuale. Basti pensare all’avvenimento saliente dell’anno appena terminato - la guerra in Iraq -, e al corteggio di bugie che ne hanno accompagnato la preparazione e lo svolgimento. Ho detto che quella controversia fu bizzarra; intendevo dire che tale appare a noi, convinti come siamo che una società in cui tutti dicano la verità, o almeno quella che in buonafede credono essere la verità, sia la più improbabile delle utopie. Ma non era un’utopia per Kant. Il suo sistema morale si reggeva tutto, com’è noto, su un principio di veridicità assoluta; e senza quel principio, che non tollerava eccezioni, gli sembrava che una società, con la sua fittissima rete di impegni reciproci, non avrebbe potuto sussistere. Su questa strada era disposto a giungere alle conseguenze più estreme, come dimostra l’esempio che innescò la polemica con Benjamin Constant.
Mettiamo, disse Kant, che un uomo sia perseguitato da un nemico intenzionato a ucciderlo; che quell’uomo vi chieda di nasconderlo nella vostra casa; che voi lo nascondiate; che il suo persecutore bussi alla porta e pretenda di sapere se l’uomo che cerca abbia trovato rifugio da voi; ebbene, secondo Kant, anche in un caso del genere il principio di veridicità obbliga il protettore dello sfortunato fuggiasco a dire la verità. Incredibilmente, il dovere vi impone di rispondere: «Sì». Molto tempo prima, un altro fiero difensore della Verità, sant’Agostino, aveva, nell’opuscolo Contro la menzogna, prospettato la stessa ipotesi; e anche lui era giunto alla conclusione che neppure in un caso del genere la menzogna era lecita.
Tuttavia Agostino aveva lasciato una coraggiosa alternativa alla delazione: si poteva non rispondere. Così si era comportato un vescovo di Tagaste di nome Fermo, «che nella volontà fu ancora più fermo. Egli aveva nascosto con massima solerzia un uomo che si era rifugiato presso di lui. Interrogato per ordine dell’Imperatore, che aveva spedito delle guardie a prelevare quell’uomo, rispose che non poteva né mentire, né rivelare il nascondiglio del ricercato, e sopportando molti tormenti corporali (a quel tempo gli imperatori non erano cristiani) restò saldo nella sua decisione. Quando più tardi fu tradotto in presenza dell’Imperatore, si mostrò di una virtù così ammirevole da ottenere senza difficoltà la grazia per l’uomo che aveva tenuto presso di sé». Più radicale, Kant non lascia vie di scampo: a una domanda precisa bisogna rispondere in maniera precisa e veritiera, in modo che nessun grumo di opacità contamini una società che si mantiene virtuosamente trasparente, anche se vi accadono cose atroci.
Tra Agostino e Kant, c’è da credere che molti altri, più oscuri, si siano misurati con un «caso di coscienza» che non ci intriga più. «Caso chiuso», si potrebbe dire: non credo che oggi esista qualcuno che pregi la veridicità al punto da condividere la raccomandazione kantiana. Un filosofo del XX secolo, Vladimir Jenkélévitch, ha scritto: «Mentire ai poliziotti della Gestapo che ci chiedono se nascondiamo presso di noi un partigiano, non è mentire...; data la situazione, è un sacro dovere rispondere: qui non c’è nessuno, anche se qualcuno c’è». Queste parole costituiscono per noi una sorta di sigillo della questione. Sigillo liquidatorio, sullo sfondo un’esperienza storica atroce: quella del nazismo.
Più articolate, più sfumate, le obiezioni di Benjamin Constant, formulate alla luce di un’altra esperienza terribile: quella della Rivoluzione francese e dei suoi sviluppi. Il suo saggio, che avrebbe provocato almeno due risposte di Kant, è del 1797. «Preso in maniera assoluta e isolata», scrive Constant, «il principio morale che obbliga a dire la verità renderebbe impossibile ogni vita sociale». Secondo Constant, tutti i principi, anche i più sacrosanti, se spogliati di quei criteri che li rendono applicabili caso per caso, provocano «distruzione e sconvolgimento»; e il principio di veridicità non fa eccezione. «Dire la verità è un dovere», afferma Constant, per precisare subito dopo: «Ma che cos’è un dovere? L’idea di dovere è inseparabile da quella dei diritti: un dovere è ciò che, in un essere, corrisponde ai diritti di un altro. Dove non ci sono diritti, non ci sono doveri. Dunque dire la verità è un dovere solo verso quelli che hanno diritto alla verità. Ma non ha diritto alla verità chi nuoce agli altri».
«Avere diritto alla verità»: questa formula di Constant, che non aveva senso nel sistema kantiano (e infatti Kant se ne sbarazzò con poche frasi taglienti), è preziosa e memorabile per noi, che viviamo in un mondo in cui il principio di veridicità viene preso sempre più alla leggera. Esistono rapporti che sarebbero vuoti e incomprensibili se al loro interno non vigessero, come elementi specifici, dei «diritti alla verità» - e dunque degli obblighi alla veridicità: per esempio, il rapporto tra elettori ed eletti, o quello tra il sistema dei media e i suoi utenti. Secondo un luogo comune, certo non scevro di qualche fondamento, i cittadini di certe democrazie - in primo luogo gli Stati Uniti - sarebbero più severi verso le bugie dei loro rappresentanti di quanto non lo siamo noi europei, inclini, sin dai tempi di Odisseo, ad ammirare la versatilità e la prontezza di chi pratica con successo la menzogna; ma la cronaca di questi anni ci spinge a dubitarne. L’impressione è che si menta sempre di più, e in maniera più sfrontata, da una parte e dall’altra dell’Atlantico.
In questa situazione la formula di Constant merita di essere ripetuta, di entrare a far parte del nostro linguaggio. Come elettori, come utenti dei media, insomma come cittadini, noi abbiamo «diritto alla verità» (ma sarebbe più esatto dire: «diritto alla veridicità», cioè a una comunicazione senza doppiezze). Questa rivendicazione non può che essere parte integrante della nostra idea di democrazia. Anche se poi non è il caso di farsi molte illusioni: non basta certo una formula per arginare una menzogna che non è più il semplice e simmetrico rovescio della realtà, come immaginavano i moralisti classici e come continuano a immaginare gli appassionati di logica nei loro rompicapo, ma un flusso pervasivo, un ibrido di vero e di falso che, ancora prima di distruggere la verità, ne distrugge lo stile.