venerdì 30 gennaio 2004

Janet Paterson Frame

una segnalazione di Filippo Trojano

Il Messaggero 30.1.04
È morta la più famosa autrice neozelandese
Frame, "pazza" di genio
di FIORELLA IANNUCCI


PER Patrick White, australiano, premio Nobel per la letteratura, Janet Frame era «il miglior romanziere neozelandese di tutti i tempi». E davvero la scrittrice, morta ieri a 79 anni in Nuova Zelanda, lascia molto di più dei suoi scritti: quindici romanzi, cinque raccolte di racconti, per non parlare delle poesie e di alcuni libri per l’infanzia (splendido Cuor di formica, Mondadori) oltre a quell’autobiografia in tre volumi (Un angelo alla mia tavola, Einaudi) che l’ha resa famosa in tutto il mondo e da cui Jane Campion ha tratto, nel 1990, un film indimenticabile. Janet Frame lascia la parabola della sua esistenza, salvata solo dalla letteratura. E la denuncia, attraverso il lirismo e persino l’ironia della sua scrittura, di un mondo che teme a tal punto la “diversità” da segregarla, da mortificarla, da annientarla. Era a un passo dalla lobotomia, Janet Frame, dieci anni alle spalle passate in un ospedale psichiatrico con una diagnosi (sbagliata) di “schizofrenia”. Non aveva ancora trent’anni. Fu un premio, l’Hubert Church, inaspettatamente vinto dai suoi primi racconti (La laguna, edito da Fazi) a fermare il bisturi e a ridarle la libertà. Non così per tutte le altre. Non così per la sua amica di manicomio, Nola. Scrive la Frame: «Lei fu reinserita nel gruppo conosciuto come “le lobotomie”: le portavano in giro, parlavano con loro, le truccavano con maquillage e foulard a fiori floreali per coprire le loro teste rasate. Erano silenziose, docili; avevano occhi grandi e scuri, incastonati in pallidi volti».
Il tema della diversità e del disagio psichico è il cuore di tutta la narrativa di Janet Frame. Da Giardini profumati per i ciechi a Gridano i gufi (editi da Guanda) all’autobiografia, non c’è pagina che non restituisca al lettore quella terribile esperienza di segregazione e umiliazione. Fango, trasformato in oro dalla scrittura di una donna mite, che amava viaggiare (in Europa soprattutto, Baleari, Andorra, Londra, dove visse per alcuni anni, Stati Uniti, Francia) ma, soprattutto, adorava restare sola. In Nuova Zelanda, dove era definitivamente tornata nel 1974, Janet Frame viveva in un luogo isolato, Paluverston North, lontano dalla gente. Lei, come Mina Minim, la giovane Formica di Casa della deliziosa favola scritta per i ragazzi, aveva seguito i consigli della Grande Regina: «Dovete uscire, piccole formiche, e vedere e annusare e provare e toccare da sole, e allora saprete». Finalmente poteva riposarsi.

l'Unità 31.1.04
Janet Frame, un angelo della diversità

È morta a 80 anni la scrittrice neozelandese resa celebre dal film di Jane Campion
In tre volumi autobiografici ha raccontato l'odissea in manicomio con la diagnosi sbagliata di schizofrenia
di Maria Serena Palieri


AIle soglie degli ottant'anni - ottant'anni vissuti con singolari sofferenze e singolare intensitá - è morta ieri di leucemia mieloide a Dunedin, sua città natale nell'Isola del Sud della Nuova Zelanda, Janet Frame: è la scrittrice che Jane Campion, con una magica accoppiata di talentí femmínili, il proprio di cineasta e il suo di narratrice, portò nel 1990 a fama planetaria con la trasposizione cinematografica, dell'autobiografia, Un angelo alla mía tavola,- pluripremiata ai festival di Venezia, e Toronto di quell'anno. Nei tre volumi autobiografici, pubblicati tra íl 1982 e il 1985 (To the IsIand, An Angel at my table, da. cui. il titolo del film, The Envoy from Mirror City), l'umbratile e tenacissima Frame raccontava una vicenda che la consegnava alla famiglia degli artisti - Campana e Sylvia Plath, Hölderlin e Pound per intenderci - «baciati» dalla malattia mentale: scrittori la cui opera riverbera il tormentato viaggio in universi psichicí ignoti ai «saní» ma che, anche, corrono il rischio di diventare oggetto di culto più per la loro vita che per la loro opera Janet Paterson Frame, infatti, era nata a Dunedin nel 1924 da una famiglia di origine fiammingo-scozzese, cinque figli e un padre ingegnere ferroviario caduto in rovina; cresciuta a Oamaru. (là «Waimaru» deì suoi romanzi), aveva sofferto per una serie di tragedie familiari: l'epilessia del fratello maschio, la morte, in due incidenti diversi, nel 1934 e 1947, di due sorelle; e fu nel '47, dopo che la sorella Isabel annegò e dopo aver tentato il suicidio, che ebbe inizio la sua odissea psichiatrica: anni passati in manicomio, con la diagnosi di schizofrenia, sottoposta a centinaia di elettroshock, soggetta all'umiliazione, e alla níentificazione che raccontò poi in Dentro il muro (primo dei suoi titoli tradotti in italiano, da Interno Giallo nel '92), finché fu una raccolta di racconti a salvarla dal capitolo finale, l'operazione di lobotomia («non rimpiangerà mai di averla fatta», ha scritto, le disse il medico). Con The Lagoon, nel 1951, vinse infatti lo Hubert Chur Memorial Award e ottenne di mantenere intero il proprio cervello.
Sarà uno psichiatra britannico, qualche anno dopo, a certificarle che ín realtà, non era mai stata schízofreníca: secondo la sua diagnosi quella paziente era semplicemente una donna che preferiva la solitudine e che era diversa dagli altri. Uscita dal calvario psichiatrico, diventata scrittrice a tutti gli effettì, Janet Frame visse poi a Ibiza, Andorra, Londra e New York, per tornare più tardi in Nuova Zelanda.
Considerata la più grande scrittrice di quella terra dopo l'anglicizzata Katharine Mansfield a più riprese candidata al Nobel tradotta in sedici lingue, Frame ci ha lasciato quindici romanzi, cinque raccolte di racconti, tre collezioni di poesie, l'autobiografia e svariati libri per bambini (in italiano, dopo il successo del film di Jane Campion, l'hanno tradotta oltre a Interno Giallo, Einaudi, Guanda, Tea, Tropea, Fazi e Mondadori).
Molte delle sue opere crescono intorno al binomio salute-pazzia, ma non tutte: Intensive Care, del 1972, è per esempio un romanzo anti-utopico, ambientato in una Terra dove i supertecnocrati hanno scatenato la Terza guerra mondiale. Pure, la potenza della sua sperimentazione narrativa risiede nell'usare la schizofrenia come inedita chiave di lettura della realtà: un tema centrale, nella sua opera, è la paura che il «sano» ha del «matto».
Mentre la dimensione allucinatoria diventa un grimaldello per forzare il linguaggio oltre le catene del banale e del necessario.
In prima persona, Frame considerava che la miglior cosa che avesse scritto fosse una favola il cui titolo in italiano suona Uccello, Aquila, Spírito: dove l'uccello (l'immaginazione e l'ispirazione) viene mangiato dall'aquila (il materialismo) e questa dallo spirito malevolo (l'immaginazione repressa e. l'individualismo). Altri hanno visto nella sua opera riflesse in infinite forme le parole Tempesta, Mare, Isola, Esilio, Magia, Ritorno: sono i codici di Prospero nella Tempesta shakespeariana.
Chiudiamo con dei suoi versi che ben raccontano cosa significa essere «diversa» dagli altri ed essere per questo considerata pazza. Scrive, in Vivere nel Maniototo (Interno Giallo 1992),
«D'ora in ora più selvatica. Lo so.
Da tanti anni divorata,
tagliata, ritagliata, i rami costretti a destra e a manca,
mi slanciai fiorendo minuti fiori bianchi
sopra gli steccati fisso in viso le persone
Mi guardano le api, mi ha preso in manto il vento.
Forte e aspro è il mio gusto, rigogliose le mie fronde.
Si acciglia la gente, se vede che metto ancora una radice»