lunedì 26 gennaio 2004

Shirin Ebadi, premio Nobel: la donna in Iran
e la responsabilità delle madri

una segnalazione di Filippo Trojano

Corriere della Sera 26.1.04
Shirin la dolce spiega il maschilismo «Malattia trasmessa da noi madri»
di Paolo Conti


TEHERAN - Il premio Nobel per la Pace non ha cambiato carattere e abitudini di Shirin Ebadi, che arriverà a Roma il 20 febbraio per tre giorni di seminari e incontri all'università: stesso microscopico studio legale accampato in un umido seminterrato nel centro-nord della città, stessa ironia, stessa amichevole disponibilità. Unica visibile novità le due massicce guardie del corpo che il ministero dell'Interno le ha imposto dopo le minacce (anche di morte) puntualmente arrivate dopo la cerimonia di Oslo. Anche la sua combattività è rimasta identica. Altro che «dolce», traduzione letterale della parola Shirin. La Ebadi era, e resta, d'acciaio.
In Marocco è stato approvato il nuovo diritto di famiglia che prevede parità di diritti e doveri tra uomo e donna. In Afghanistan le donne cantano di nuovo in tv... Si sta muovendo qualcosa nella condizione della donna islamica?
«Certo che sì. Le donne musulmane cominciano a credere in loro stesse. Prendono coscienza di essere state oppresse da una cultura maschilista. E capiscono che non c'è bisogno di abbandonare la religione per liberarsi. Perché il problema è l'interpretazione che ne hanno dato per secoli gli uomini. Infatti dico e ripeto che l'Islam è compatibile con i diritti delle donne, seguendo il Corano, così come lo è con la democrazia».
Qualche esempio?
«Certo. Il Corano prevede delle leggi primarie, mettiamo l'obbligo di digiunare dall'alba al tramonto nel mese di Ramadan. Poi ci sono le leggi secondarie ideate dagli uomini per adattare le regole alla realtà quotidiana senza rinnegare lo spirito islamico. Torniamo al digiuno. In talune circostanze si può dividere la giornata in tre blocchi di otto ore: si digiuna in tempi diversi, rispettando la regola ma adeguandosi alla vita di oggi. Altri esempi? Per secoli la musica è stata proibita come gli scacchi. E invece oggi... Il punto è che nessuno si è occupato delle leggi secondarie per le donne semplicemente perché gli uomini non hanno voluto. Né le donne, per generazioni, ne hanno conosciuto l'esistenza».
E oggi, soprattutto nel suo Iran, cosa sta accadendo?
«Le donne sono forti, consapevoli, combattive. E ormai più colte. Il 63% delle iscrizioni alle nostre università sono di ragazze. Con una simile struttura sociale sarà impossibile mantenere certe leggi. Giorno per giorno il movimento femminista si sta rafforzando. Ormai sono centinaia le donne impegnate nelle battaglie per i diritti. E tra poco diranno a questi uomini sempre più ignoranti: ma cosa state facendo?».
Pensa che Internet, le tv satellitari, le nuove tecnologie contribuiscano a questo mutamento di mentalità?
«Moltissimo. Rappresentano una svolta. E tutto questo arriverà ai figli. Ogni uomo oppressivo e prepotente ha avuto una madre che gli ha trasmesso una cultura: per me il maschilismo è come l'emofilia, che attacca gli uomini ma è trasmessa dalle donne che ne sono portatrici sane».
Quali sono i diritti femminili più violati in Iran?
«La poligamia. E l'intero diritto di famiglia. Ancora oggi i parenti di un marito morto sorvegliano l'economia della casa del defunto e l'educazione dei figli. Poi il peso della donna davanti a un giudice: una testimonianza maschile ne "vale" due femminili. Ma alcune cose stanno cambiando. Venti giorni fa il Consiglio delle opportunità, presieduto da Hashemi Rafsanjani, ha approvato dopo un anno di attesa una legge votata dal Parlamento e bloccata dal Consiglio religioso dei Guardiani. Finalmente la donna che si separa avrà il diritto di custodia dei figli fino all'età di sette anni indipendentemente dal loro sesso. Poi il giudice convocherà le parti, moglie inclusa, e deciderà per il bene dei figli. Prima i maschi erano affidati alla madre solo fino ai due anni. Poi decideva il giudice... sentendo il solo padre! Da vent'anni, io ero tra loro, le donne gridavano: vogliamo i nostri figli! Abbiamo vinto».
Avrà pesato anche il suo Nobel, la ribalta internazionale...
(Sorride) «Forse sì. Ma la vittoria è di tutte le donne d'Iran».
Pensa che gli uomini iraniani si sentano aggrediti?
«Alcunì sì, sicuramente. E hanno paura. Infatti, intorno al dibattito sui diritti delle donne, sono scoppiati forti contrasti politici. La cultura maschilista è antidemocratica proprio perché esclude il diritto di tutti a partecipare nello stesso modo alle decisioni politiche. Se un uomo pensa che in casa una donna valga meno di lui, sarà anche convinto che nella società una élite abbia diritto di decidere per tutti».
Gli Stati Uniti ora sono presenti sia in Iraq che in Afghanistan. Ritiene che la loro influenza culturale possa contribuire al cambiamento nei rapporti tra uomo e donna proprio con l'esempio di una società paritaria?
«Non credo proprio. La democrazia è un processo lento che non si realizza in una notte: occorre un cammino spesso anche lungo. E lo stesso vale per l'uguaglianza tra uomo e donna. E' una intera cultura, anzi il cuore di quella cultura, che deve modificarsi. Con gli stranieri non risolviamo nulla».
Quando arriverà in Iran un diritto civile simile a quello varato poche settimane fa in Marocco?
«Le cose, come abbiamo visto, stanno cambiando grazie alla presa di coscienza delle donne. In molti campi, per la verità, la nostra legislazione non è cattiva: per esempio la tutela del posto di lavoro delle donne. Ma resta il nodo della bassa occupazione femminile: molti imprenditori continuano a preferire mano d'opera maschile e troppi mariti impediscono ancora oggi alle mogli di lavorare liberamente».
A Parigi, Oslo e Bombay lei si è presentata a testa scoperta e ha stretto le mani agli uomini provocando l'ira dei conservatori iraniani. Qui usa sempre il velo. Perché?
«Io sono una donna di legge e in Iran una legge impone il velo e altre regole a tutte le donne, islamiche e non. A Parigi, Oslo e Bombay questa legge non c'è... E poi io sono per la libertà. Ogni donna dovrebbe decidere come vestirsi o coprirsi senza obblighi. Per questo sono ostile alle nuove disposizioni francesi che hanno vietato il velo nelle università».
Allora sarebbe bene garantire la stessa libertà alle donne iraniane rendendo facoltativo ogni chador...
«Certamente sì».
La situazione politica in Iran, in vista delle elezioni del 20 febbraio, oggi è molto confusa. Qual è il suo giudizio sull'èra Khatami, sull'azione di questo presidente?
«E' stato sicuramente il migliore di tutti. Però lo critico. Quando presentò la riforma elettorale disse: o la approvano o io non potrò più lavorare. La legge è stata bocciata dai Guardiani. E la situazione è quella che vediamo, con le liste dei candidati bloccate sempre dai Guardiani. Ma Khatami è rimasto al suo posto. Avrebbe dovuto essere più deciso».
Molti, in Europa, pensano a lei come al futuro presidente dell'Iran. Cosa ne pensa Shirin Ebadi?
«Che non accadrà mai. Proprio mai».
Lei è sposata. Dopo tutto questo discorso, può dirci chi comanda a casa sua? Lei o suo marito?
«Nessuno dei due. Comandano le nostre due figlie».

Da una cella di Teheran al Nobel

Shirin Ebadi, 56 anni, un marito e due figlie di 20 e 23 anni, ha vinto il Nobel per la Pace 2003 con questa motivazione: «Per i suoi sforzi per la democrazia, i diritti umani, in particolare delle donne e dei bambini. In un'èra di violenza ha sostenuto la non-violenza».
Era già una stella di prima grandezza nell'Iran dello Scià. Era una delle prime donne-giudici e nel 1979 fu la prima a presiedere una sezione del Tribunale di Teheran. Poi, dopo la rivoluzione, il governo religioso stabilì che nessuna donna avrebbe potuto giudicare un uomo. Lei rifiutò di restare nell'amministrazione in una condizione inferiore al suo grado e aprì uno studio legale.
Da allora si è occupata di violazione dei diritti soprattutto delle donne e dei bambini. Ha fondato un telefono azzurro iraniano. E' stata parte civile contro gli agenti dei servizi segreti accusati di aver ucciso nel 1998 il dissidente Dariush Forouhar e sua moglie Parvaneh. Nel 2000 è stata in prigione per 25 giorni, accusata di aver estorto e registrato la confessione di un ex componente pentito della polizia religiosa coinvolta nella repressione delle proteste studentesche del 1999: in realtà l'uomo si era presentato spontaneamente nel suo studio. Si è recentemente occupata del caso di Zahara Kazemi, la fotografa iraniano-canadese morta a luglio dopo le percosse subìte in una cella di detenzione.