lunedì 26 gennaio 2004

Cina

La Stampa 26 Gennaio 2004
A DAVOS SOLO I POLITOLOGI GETTANO ACQUA SUL FUOCO E NOTANO CHE «NESSUN SISTEMA TOTALITARIO È CAPACE DI EVOLVERE SENZA SCOSSE»
Il mondo fra dieci anni? Cinesizzato
Gli esperti: Pechino sarà la fabbrica del pianeta e l’India l’ufficio
dall’inviato a DAVOS


Globalizzazione è vedere sulle nevi svizzere uno striscione che augura in cinese e francese la galera ai dirigenti della Cina, rei di perseguitare la setta Falun Gong. Globalizzazione è entrare al supermercato di Davos e scoprire che i berretti da sciatore sono fabbricati in Cina. Al World Economic Forum 2004, dove in più di un dibattito ci si è chiesti come sarà il mondo tra dieci anni, pareva di poter rispondere: tra dieci anni, invece di temere che la globalizzazione ci americanizzi tutti, avremo paura che ci cinesizzi.
Se la ride un giovane manager indiano, Sunil Robert, che lavora in una azienda di software in ascesa mondiale, chiamata i-Flex: «Sì, la Cina diventa la fabbrica del mondo, e noi in India diventiamo l'ufficio. Software, call center, lavoro di ufficio o professionale via Internet per aziende di tutto il mondo. Noi siamo più svegli». Un grande manager globale, Carlos Ghosn di provenienza Renault, presidente della Nissan in Giappone, prima di proiettare nel futuro una Cina potentissima, si domanda «se potrà essere a lungo efficiente un sistema dove in una grande azienda capita spesso di trovare che la stessa persona allo stesso tempo è direttore del personale, segretario della cellula comunista e capo del sindacato».
Ma anche la Cina si sta spostando sul lavoro qualificato. «Dove altro li trovate ingegneri elettronici disposti a lavorare di notte, sì, di notte, facendo funzionare i laboratori con tre turni a ciclo continuo, o il sabato e la domenica?» chiede Ulrich Schumacher, presidente della multinazionale elettronica tedesca Infineon. Per l'appunto, nel più grande Paese ancora dominato da un partito nominalmente comunista, i lavoratori accettano trattamenti impensabili altrove. Nella surriscaldata Shanghai peraltro la paga dei tecnici qualificati è giunta allo stesso livello di Praga che è a un'ora e mezza d'auto dalla Germania, cosicché la Infineon ha appena aperto un laboratorio a Xian, la città storica dell'interno che fu la capitale di Mao Zedong al termine della «lunga marcia» e durante la guerra civile.
A Davos, in loro assenza, i comunisti che governano oggi la Repubblica popolare, il presidente Hu Jintao e tutti quelli della nuova generazione, sono stati riempiti di lodi: una classe dirigente all'altezza del compito, pienamente conscia degli enormi problemi sociali che lo sviluppo economico creerà, e della crescente impraticabilità di un regime autoritario a partito unico. Lo stesso Ghosn, tutto sommato, è ottimista: hanno fatto della crescita economica la loro priorità assoluta. Victor Chu, un ricchissimo finanziere di Hong Kong che sembra ben introdotto a Pechino, enumera: «Sono concentrati su queste sfide di politica interna. Sanno che le disuguaglianze tra il ricco Est e il povero Ovest del Paese si stanno allargando. Sanno che occorrono forme di protezione sociale per ricollocare i disoccupati delle vecchie imprese di Stato che chiudono. Sanno soprattutto che nei prossimi decenni dovranno regolare una migrazione interna dalle campagne alle città fino a 300 milioni di persone».
Nella attuale forma, il «soi disant» comunismo cinese sembra essere fatto apposta per entusiasmare i capitalisti. «Guadagnamo meglio in Cina che in quasi ogni altro Paese» si vanta Dinesh Paliwal, dirigente della multinazionale svizzera Abb. Anche il ministro del Commercio Usa Donald Evans, che pure ha un contenzioso di protezionismi da risolvere, loda i dirigenti di Pechino. Assai più cauti sono i politologi e gli esperti di relazioni internazionali, che per lo più non hanno fiducia nella capacità di un sistema totalitario di evolversi senza scosse. Esasperati sono invece quelli che rappresentano i lavoratori in altri Paesi: «Se noi chiediamo migliori condizioni di lavoro, e se rifiutiamo contratti a termine invece di posti fissi, le imprese minacciano di trasferirsi in Cina. Se il nostro governo gli rifiuta sgravi o favori, minacciano di trasferirsi in Cina» dice Govindasamy Rajasaharan, leader dei sindacati malesi.
Realisticamente, la cinesizzazione del mondo resta ancora lontana. «Le aziende cinesi hanno difficoltà a imporre i loro marchi all'estero. Ci vorranno ancora molti anni perché ci riescano. Capita perfino che quelle con un marchio affermato all'interno vadano all'estero in perdita, solo a scopo pubblicitario» ammette Zhang Weiying, vicepreside della scuola di direzione aziendale dell'università di Pechino. In termini di dimensione economica, occorre pure ricordare che il prodotto lordo della Cina ai tassi di cambio di mercato supera di poco quello italiano, e anche proiettando nel futuro gli elevatissimi tassi di crescita attuali (oltre 9% nel 2003) non raggiungerà gli Stati Uniti prima del 2040.
Più che altro della Cina si sa ancora pochissimo. Basti pensare che tra gli esperti di Cina presenti a Davos una parte prevede un consistente rallentamento della crescita nel 2004 a causa di surriscaldamento della congiuntura e strozzature strutturali, un'altra parte ribatte che non ce ne sono i segni, che da anni si parla di future strozzature alla crescita che poi non si manifestano mai. C'è chi rappresenta i cinesi come poco curiosi del mondo esterno, chi, come Ghosn, li descrive «ansiosi di imparare cose nuove, delle vere spugne». Si scommette meglio sul futuro, sostiene uno studio della banca di investimenti Goldman Sachs, senza sbilanciarsi troppo verso la «Terra di Mezzo»: da qui a dieci anni saranno quattro i nuovi protagonisti dell'economia mondiale, in proporzioni variabili a seconda di come si evolveranno, identificabili con l'acronimo «Bric»: Brasile, Russia, India, Cina.