venerdì 6 febbraio 2004

in memoria di Nuto Revelli
un'intervista con Mario Rigoni Stern e un suo discorso

il manifesto 6.2.04
Il futuro anteriore della Resistenza
Parole asciutte e essenziali per una scelta coraggiosa. Un'intervista con Mario Rigoni Stern
di MASSIMO RAFFAELI


Era uno scrittore di cose nel paese degli scrittori di parole; ed era uno scrittore per necessità, non certo per elezione, tanto meno per vocazione. Nuto Revelli non si limitava a dire qualcosa ma aveva qualcosa da dire, e di molto importante, addirittura di esorbitante, vale a dire una totalità d'esperienza pagata in prima persona e persino emblematica trapassi del «Secolo di Ferro»: non riconosceva a se stesso nessuna specialità o eredità da amministrare se non il debito, presto divenuto imperativo morale, contratto coi soldati e con i partigiani che giovanissimo aveva visto spegnersi vicino a lui; voleva solo che i più giovani sapessero, che incontrassero al futuro anteriore i segni antichi di chi vive e parla da sotto, «muto» per selezione storica e di classe, il patema di chi un tempo è dovuto salire in montagna per amore di giustizia e libertà, così come gli stenti dei contadini più poveri, nell'aspra Langa. Ciò lo esonerava da ogni cerimonia letteraria e vanificava gli aggettivi di «reduce» e di «testimone» con cui era stato dapprima recepito, per distrazione e sospetta ipocrisia. La guerra (la sciagurata campagna di Russia, la rotta degli alpini mandati a morire dal fascismo e poi abbandonati nell'inferno di ghiaccio), la lotta partigiana e la Resistenza, ma anche la cancellazione della civiltà patriarcale, la dispersione di una intera antropologia, questi erano i contenuti dei suoi libri concentrici, dove l'uno sembra richiamare virtualmente l'altro, da La guerra dei poveri ('62) a L'ultimo fronte ('71), da Il mondo dei vinti ('77) a Il prete giusto ('98) fino a Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana (2003), un'insieme di conversazioni per gli studenti dell'università che oggi assumono il valore di testamento. Nuto Revelli scriveva nell'italiano spoglio ed essenziale, sospettoso di qualsiasi eleganza, che è il solo capace di lasciarsi alle spalle la retorica secolare, il gergo delle accademie e delle lapidi; è l'italiano meravigliosamente elementare con cui è scritta la Costituzione della Repubblica, l'italiano di Primo Levi e di un altro narratore, Mario Rigoni Stern, ora riconosciuto fra i maggiori del dopoguerra (vedi il Meridiano Mondadori Storie dell'Altipiano, a cura di Eraldo Affinati, 2003), che con Revelli condivide alcuni tratti di stile e biografia già a partire da Il sergente nella neve ('53).
Oggi, nonostante l'afflizione per la perdita dell'amico, Mario Rigoni Stern ha accettato tuttavia, con la consueta gentilezza, di rispondere ad alcune domande. La sua voce, come sempre, è laconica, ma è lo stessa che per tanto tempo Revelli amò nelle parole di un compagno e sulla pagina di un autentico scrittore consanguineo. Del resto scrisse, in calce alla nota che introduce Le due guerre: «Esiste un libro bellissimo, che si inserisce a pieno titolo nel discorso della guerra vista dal basso. E' Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern. Ma una rondine non fa primavera. Ecco perché giudico severamente una parte della 'grande Storia', quella con la S maiuscola, la storia vista dall'alto, quella storia che purtroppo fa ancora testo in molte scuole militari. Una storia militare in cui gli uomini sono sempre e soltanto numeri, in cui i soldati sono classificati come 'materiale umano' è una storia che vale poco o niente, è una storia falsa, sbagliata. E' comunque una storia senz'anima».

Qual è, Rigoni Stern, il ricordo più invasivo, in questo momento?
Ricordo quando siamo andati assieme sulle sue montagne, dove aveva fatto la guerra da partigiano. Ci eravamo trovati dopo una ventina d'anni dalla fine della guerra. Io sapevo fin da allora di Nuto, perché un mio amico e compaesano comandava il plotone guastatori della sua banda, ma Nuto era un mito già per noi alpini, in Russia, perchè sapevamo di questo cuneese che era sulla linea di fianco a noi, sapevamo che era duro e testardo ma tanto generoso con i suoi soldati.

Quand'è invece che l'ha incontrato da scrittore?
Mi viene in mente una poesia di un altro amico, Primo Levi, che diceva «ho due amici nati all'ombra delle montagne», erano appunto Nuto e Mario, e diceva che avevamo imparato entrambi l'indignazione sulle nevi della Russia. Ecco, il testimoniare Nuto l'ha sentito subito come un dovere. E' così che è nato scrittore. Credo sia l'unico che durante la ritirata abbia voluto e saputo prendere appunti per quello che poi sarebbe stato il libro più suo, La guerra dei poveri. Parlavamo poco, anche se io, veneto, forse ero un po' più chiacchierone, ma quando stavamo insieme c'erano tra noi sempre grandi silenzi, perché quando ci si ritrova in certi luoghi non servono grandi discorsi.
Ricordo che l'ho incontrato quando stava registrando le testimonianze per La strada del davai, un libro grande e tremendo, e lui parlava coi sopravvissuti della Cuneese alla campagna di Russia, tutti uomini delle sue montagne e delle sue valli: erano testimonianze agghiaccianti, che lo facevano ancora soffrire, andava a raccoglierle su per i paesi sperduti e abbandonati, dove ora non c'è più nessuno. Anche il libro successivo, infatti, Il mondo dei vinti, parla di una tragedia, una tragedia del nostro dopoguerra, e una tragedia ignorata dai più, anche oggi. Le sue erano montagne particolarmente disgraziate, spopolate prima dalla guerra e poi dall'emigrazione, paesi vuoti, coi topi e le volpi che entravano liberamente nelle case. Questa è la testimonianza di Nuto, diretta agli uomini di oggi, sempre che gli uomini di oggi vogliano recepirla, vogliano capirla...

Ma, specie guardando alle ultime generazioni, lei pensa che questo sia possibile con immediatezza? O non è invece necessaria una mediazione, una qualche specifica indicazione?
Credo che nessuno, tanto meno un giovane, abbia necessità di particolari mediazioni nell'affrontare i libri di Revelli. Lo scrivere di Nuto è così chiaro, così preciso, così drammatico, che ha solo bisogno di essere letto.

Liberazione 6.2.04
Ricordare e raccontare
di Nuto Revelli

Pubblichiamo stralci dell'intervento di Nuto Revelli
in occasione del conferimento della laurea Honoris causa
da parte dell'Università di Torino.


La laurea Honoris causa che questa prestigiosa università mi ha conferito, mi inorgoglisce perché premia il mio impegno di cultore delle "fonti orali". Ma soprattutto mi intimidisce perché la maggior parte del merito delle mie indagini spetta agli autori delle storie di vita che ho raccolto, ai protagonisti del mio "mondo dei vinti".
Avevo 20 anni nel luglio del '39 quando conseguii presso l'istituto tecnico di Cuneo il diploma di geometra. La guerra era alle porte. Non per niente domandai subito di venire ammesso in un'accademia militare per imparare quel mestiere. Altro che geometra. Trascorsi due anni a Modena (...). Poi, con il grado di sottotenente, fui assegnato al II reggimento alpini della divisione Cuneense (...).
Erano stanchi i miei alpini, dopo le esperienze non certo esaltanti del fronte occidentale e del fronte greco-albanese. Diventarono i miei "maestri" (...). Mi aiutavano a capire, a crescere. Avevano la famiglia, la casa al centro di tutto. Il loro unico sogno era una "licenza agricola".
Nel luglio del '42, con il V reggimento alpini della divisione Tridentina, fui inviato sul fronte russo. Conservo un ricordo preciso di quanto fosse immensa la mia ignoranza. Appartenevo alla categoria dei cosiddetti "colti" ma a malapena sapevo dove fosse collocata geograficamente l'Urss. Non mi rendevo conto di appartenere a un esercito di aggressori (...). Andavo a migliaia di chilometri da casa mia, ad ammazzare o a farmi ammazzare, ma per che cosa? Per la "Patria". Quale "Patria"? Quella del fascismo, della monarchia, dei Savoia? Quando si intuisce di essere ignoranti si compie già il primo passo per uscire dal buio. Decisi di tenere un diario (...). Durante il viaggio - a Stalbtzy - intravidi gli ebrei, quelli dei campi di sterminio dei quali ignoravo l'esistenza. Erano una sessantina di relitti umani - donne, uomini, bambini - scalzi, sporchi, coperti di stracci. Tutti marchiati con la stella gialla (...). Odiai le due SS che li controllavano da lontano con i mitra spianati. E dissi a me stesso: «Questa è la guerra dei tedeschi, non la mia guerra». Ero ignorante, ma incominciavo a interrogarmi (...). Poi la vita di linea, sul Don, e nel gennaio '43 l'inizio della fine (...). Ricordo tutto dei giorni e delle notti della ritirata (...). Il 20 gennaio - terzo giorno della ritirata - nell'immensa piana di Postojali, nei 25 gradi sotto zero mi resi conto che avevo capito tutto. La nostra colonna - 30 o 40 mila uomini allo sbando - sostava da ore in attesa di ordini. Eravamo più morti che vivi. Maledii il fascismo, la monarchia, le gerarchie militari, la guerra. Avevo capito tutto, ma troppo tardi!
"Ricordare e raccontare", questa la parola d'ordine che mi portai nel cuore da quell'esperienza tristissima. Nei giorni dell'8 settembre ero a Cuneo e se scelsi istintivamente di lottare contro i fascisti e i tedeschi fu perché sentivo nella mia coscienza il peso enorme di quelle decine di migliaia di poveri cristi - la maggior parte "contadini in divisa" - mandati a morire per niente in quella guerra maledetta. Furono importanti i mesi che trascorsi nelle formazioni partigiane di "Giustizia e Libertà", con "maestri" come Livio Bianco e Duccio Galimberti. In quei venti mesi diventai adulto. Soprattutto Livio mi era vicino. Io lo aiutavo a risolvere i problemi pratici, quelli militari. E lui mi insegnava l'abc della cultura politica, e a dare un senso all'esperienza che stavo vivendo.
Nel '46 sentii l'obbligo di gridare la mia verità. Pubblicai il mio diario di Russia. L'informazione era vaga, per non dire inesistente. Le fonti ufficiali tacevano. E le famiglie della provincia di Cuneo che avevano perduto un loro congiunto sul fronte russo, circa 7000, continuavano a illudersi che tutti gli "assenti" fossero vivi, prigionieri. Per l'autorità militare, quasi tutti gli "assenti" appartenevano alla vastissima categoria degli scomparsi nel nulla, dei "dispersi": cioè dei non vivi e non morti.
Nel '62, con la Guerra dei poveri, conclusi il mio discorso autobiografico. E decisi di dare una voce agli ex soldati (...). Pubblicai "La strada del Davai". Poi "L'ultimo fronte": raccolsi le lettere che i caduti e i "dispersi" avevano inviato alle famiglie dai vari fronti di guerra, soprattutto dal fronte russo. Erano difficilmente raggiungibili quei piccoli "archivi familiari", custoditi gelosamente dalle madri, dalle spose, dalle sorelle dei caduti e dei "dispersi". Bisognava acquisire quegli epistolari senza procurare nuovi traumi e sofferenze. Occorreva molta umiltà e prudenza nel chiedere. Centinaia di lettere le acquistai da uno straccivendolo di Cuneo: l'autorità militare le aveva cedute come carta da macero. Non poche di quelle lettere le restituii poi alle famiglie perché erano preziose come tanti testamenti.
Ma assistevo al grande esodo dalla campagna povera, all'abbandono delle aree depresse della montagna e dell'Alta Langa, come risposta all'industrializzazione troppo rapida della pianura. Era un vero e proprio terremoto. Si contavano a migliaia i contadini, i montanari che diventavano manovali dell'industria. Un patrimonio di forze, esperienze, mestieri, destinato a disperdersi. Altro che "difesa dell'ambiente" e "governo del territorio". Con l'esodo indiscriminato, caotico, in non poche aree della nostra collina e della montagna si sfilacciava il tessuto sociale, si estendeva il deserto. Raccolsi le storie di vita de "Il mondo dei vinti" e de "L'anello forte" per dare voce a chi era costretto, ancora una volta, a subire le scelte sbagliate degli "altri". Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell'ignoranza, come eravamo cresciuti noi della "generazione del Littorio". Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta.