lunedì 9 febbraio 2004

la civiltà Inca in mostra a Firenze

il manifesto 9.2.04
INTERVISTA
Dagli Inca, archeologie del presente

A Firenze, presso Palazzo Strozzi, la mostra «Perù. Tremila anni di capolavori». Una eccezionale selezione di pezzi, «preziosi» e ceramiche, che mira ad approfondire gli aspetti legati alla committenza, alla fruizione e alla valutazione autoctona delle culture materiali locali. Dalla essenzialità decorativa delle ceramiche Chimù all'acceso colorismo di quelle Nasca, dall'eleganza formale Moche al ritorno all'ordine imperiale che costituisce l'essenza della produzione Inca. Dell'esposizione, del pregiudizio secondo cui le civiltà «primitive» sarebbero diverse da quelle «evolute» quanto alla loro percezione del bello, del degrado in cui versano le strutture museali italiane abbiamo parlato con l'antropologo e americanista Antonio Aimi
di BENEDETTA CESTELLI GUIDI


Nella mostra Perù. Tremila anni di capolavori si trova un'eccezionale selezione di pezzi di ottima qualità, nonché recenti scoperte, degli stili delle culture locali che hanno abitato il vasto territorio sud americano fino all'Impero Inca (sino al 22 febbraio a Palazzo Strozzi,Firenze, www.perupalazzostrozzi.it). Il percorso è costruito su 300 pezzi che introducono il profano alla cultura peruviana per poi calarlo a due piedi nella ricca e varia produzione artistica; è infatti l'approfondimento degli aspetti legati alla committenza, fruizione, considerazione autoctone delle culture materiali locali a costituire la novità di questa esposizione; l'antropologo Antonio Aimi, americanista attento alle questioni teoriche e museologiche, ha scelto di presentare le varie produzioni materiali nell'arco di tre secoli (1.500 a.C. - 1.500 d.C.) attraverso una lettura livellante dei parametri estetici preincaici su quelli etnocentrici. La mostra presenta una gran varietà di manufatti tra cui «preziosi» e ceramiche. Sebbene nella prima categoria vi siano notevolissimi pezzi - tra cui una magnifica piccola esposizione delle collezioni peruviane del Museo di Storia Naturale di Firenze - sono le ceramiche a fare la parte del leone. Queste coprono la successione di stili artistici delle varie culture preincaiche rivelando le varietà e prolificità di soluzioni formali e coloristiche; l'essenzialità decorativa delle ceramiche Chimù (900-1470 d.C.); l'acceso colorismo di quelle Nasca (100-700 d.C.); l'eleganza formale e coloristica Moche (100 a.C. - 850 d.C.). Quando infine si giunge alla produzione Inca (1440-1532) si capisce da subito che è in gioco l'immagine ordinata e regolatrice dell'Impero: il ritorno all'ordine si esprime in grandi dimensioni, eleganza formale, alternanza di pochi colori all'interno di sobri campi decorativi. La densità della mostra fa sì che lo spettatore debba riflettere, soffermarsi, guardare per comprendere che cosa ma soprattutto come ci viene mostrato. Al percorso cronologico che sottende l'esposizione se ne interseca un secondo, di tipo artistico, che domina le sale centrali in cui la genericità dei dati a noi disponibili sono ancorati a stili, scuole, botteghe fino ai singoli maestri e ad avanguardie artistiche. Aimi ha adottato cioè i nostri parametri estetici, attaccando il pregiudizio secondo cui le civiltà «primitive» sono diverse da quelle «evolute» in primis nella loro percezione del bello. Se le fonti potevano venirci in aiuto, come intuì Michael Baxandall quando utilizzava la terminologia quattrocentesca per capire oggi cos'è che piaceva al fiorentino di una pittura sua contemporanea, non è questo il caso del Perù: la storia dei vincitori, per quanto consapevoli, avrebbe alterato da subito la nostra percezione dell'«altro», riducendolo ad un essere superstizioso, sanguinario, fermo al presente etnografico dell'infanzia cruenta dell'umanità. Ne abbiamo parlato con Aimi.
In queste condizioni è possibile restituire oggi lo sguardo di quelle culture?
Nell'articolo di presentazione della mostra mi chiedo, parafrasando Octavio Paz, se è possibile guardare una figurina inca con gli occhi di un abitante del Cuzco e riconosco subito, sempre seguendo Paz, che noi non siamo certo inca ma neppure greci, né cinesi, né arabi, né uomini del Medio Evo. Siamo quindi sempre condannati alla traduzione, alla «trasmutazione dell'originale» all'interno dei nostri sistemi di riferimento. Detto questo, riconoscendo la relativa arbitrarietà dei nostri giudizi, mi limito a mettere in evidenza un dato macroscopico che è enormemente sottovalutato: il contesto archeologico e, in alcuni ambiti, etnografico ci dà un'idea abbastanza precisa del sistema di valori artistici delle culture amerindiane rivelandoci che esso non è molto diverso dal nostro. In altre parole noi stiamo scoprendo che quello che a noi piace, piaceva anche ai Maya o agli Inca. Lei pone il problema della mancanza di fonti letterarie. Credo che le fonti archeologiche, vale a dire le scelte concrete fatte dagli Inca o dai Maya, abbiano un valore euristico ben più forte di qualsiasi testo, perché i testi possono rispecchiare le posizioni ideologiche o i gusti particolari di un autore, ecc. Le scelte reali dei sovrani delle culture precolombiane, invece, sono sotto i nostri occhi e sono indiscutibili.
Lei ha citato il caso della tribù amazzonica degli Asurini, scoperta negli anni '70, che ha avuto una notevole importanza nel comprendere come essi stessi valutavano la propria produzione artistica.
Le ricerche antropologiche di chi ha vissuto a lungo con loro e li ha studiati e aiutati (mi riferisco a Regina Polo Muller, ma anche all'amico Aldo Lo Curto) sono state fondamentali perché hanno mostrato la presenza di una netta gerarchia di valori estetici in una situazione sociale che corrisponde al livello zero della divisione del lavoro. E anche in questo caso la gerarchia degli Asurini è uguale alla nostra.
Lei ha usato alcuni «ismi» della storia dell'arte occidentale, paragonando alcune soluzioni formali e coloristiche delle produzioni artistiche peruviane a dipinti di Klee, Kandinskj, Picasso. E' necessario ricorrere ancora oggi alle cosiddette «avanguardie storiche» per nobilitare quest'arte?
Io non ho citato gli «ismi» per nobilitare le opere dei maestri dell'antico Perù, perché non hanno proprio bisogno di essere nobilitate. Credo che siano già molto nobili per conto loro. Ho semplicemente mostrato al visitatore alcune convergenze che finora nessuno aveva mai rilevato e ho suggerito alcuni confronti critici come si è soliti fare anche in una qualunque riflessione sull'arte occidentale. Il problema è che finora queste convergenze sono, incredibilmente, del tutto sconosciute. Spesso ci si è limitati alla ricerca del «modello saccheggiato o copiato» dai moderni. Quando gli «ismi» delle altre culture saranno digeriti e accettati e, spero presto, forse si potrà fare un passo in avanti e studiare queste convergenze da altri punti di vista.
Lei è molto attento al dibattito sui musei di etnografia: qual è la sua istanza «etnografia» o «arte»?
In genere credo che sia opportuno raddrizzare le barche troppo sbilanciate da una parte. Tuttavia non voglio essere elusivo, tra le sale etnografiche del British Museum e il Pavillons des Sessions scelgo, pur con molte riserve, il Pavillons des Sessions. Dirò di più, come ha rivelato anche una museologa inglese, la sala del Nord America del British Museum sotto la patina dell'etnografia continua a riproporre un razzismo e uno snobismo veramente irritanti.
Il dibattito nasce in America, come conseguenza del processo post coloniale nelle società multietniche. Esiste un dibattito simile oggi in Italia?
In America, da quel poco che so, il dibattito è molto all'insegna del politically correct e della naïveté di molti antropologi privi di una salda cultura umanistica. In Italia la situazione è molto diversa perché, per fortuna, all'interno del territorio nazionale non abbiamo i discendenti di popolazioni massacrate e deculturate da risarcire in qualche modo. Qui il dibattito mi sembra meno «politico» e più ideologico. In alcuni casi, inoltre, il rinvio, ormai rituale, tanto a destra quanto a sinistra, alla società multietnica mostra che certi amministratori e certi operatori museali non hanno ben chiara la differenza tra un centro per extracomunitari e un museo. Così come il rinvio «alle radici» evocato dai vari musei della «civiltà contadina», sempre dal taglio ultralocalistico, può essere il veicolo di istanze tanto di destra (noi contro gli altri), quanto di sinistra (la memoria storica dei ceti subalterni). Io credo che le contaminazioni tra musei etno-antropologici e politica, per altro nate con la stessa antropologia nell'Ottocento (il politically correct è solo l'ultima moda, abbiamo visto ben di peggio), non diano, a livello espositivo, buoni consigli anche se non impediscono necessariamente di fare musei straordinari. In realtà molte pasionarie (uomini e donne) del politically correct museale non si rendono conto che agganciare le ristrutturazioni dei musei di «antropologia» alle tematiche della società multietnica è, in realtà, l'ultima frontiera del razzismo e dell'etnocentrismo. Non si accettano i reperti e le opere d'arte delle culture «altre» in quanto tali (si potrebbe dire senza se e senza ma), li si accettano solo perché i lontanissimi discendenti di chi le ha prodotte ci sono venuti in casa. E una cosa vergognosa e pazzesca. E come se in Australia o in Giappone si facesse dipendere l'accettazione dell'arte del Rinascimento dalla presenza, più o meno numerosa, di comunità di immigrati italiani.
Una riprova dei devastanti risultati del taglio ideologico del dibattito italiano è che nessuno ha parlato del fatto che a livello museale siamo ben al di sotto degli standard della decenza europea. E' bene dirlo chiaramente, a parte alcune situazioni in controtendenza, a livello museale gran parte dell'Italia è nel Terzo Mondo. In alcuni casi il confronto non dico con la Francia o la Svizzera ma col Perù e col Messico è umiliante. Ci sono reperti che scompaiono o che sono conservati in condizione inaccettabili. Ci sono musei impresentabili. E poi, sembra paradossale dirlo, con tanto chiacchiericcio sul politically correct e sulla società multiculturale, la struttura del Ministero e delle Sovrintendenze, la selezione del personale e la valutazione delle sue specifiche competenze, i flussi di risorse partono dal presupposto che in realtà gli unici beni che lo Stato deve tutelare sono quelli della nostra tradizione. Cosa che, per altro, si fa molto male. In Italia nessuno è consapevole che un medio sito archeologico del Messico (e non sto parlando dei luoghi sacri all'identità nazionale messicana) è tenuto molto, molto meglio del Foro Romano. Sullo sfondo, oltre i musei, c'è un dato di fatto incontestabile: le risorse destinate alla cultura sono insignificanti e sono per la maggior parte drenate da iniziative pagliaccesche. Si è mai fatto il conto dei soldi che gli enti locali buttano nella spazzatura con quella girandola di premi letterari e iniziative varie che imperversano dalle Alpi alla Sicilia ? Forse è molto più semplice riconoscere che della cultura, e chiaramente non mi riferisco all'arte «altra», non ce ne importa nulla.
Crede vi siano differenze sostanziali tra il modello post coloniale museale americano e quello europeo?
Non so se è corretto parlare di modello postcoloniale, perché la svolta è di questi ultimi anni e a me sembra più legata ai processi di globalizzazione. Chi parla di modello americano e modello europeo sono i Francesi. Mi sembra più chiaro parlare di partito dell'arte e partito dell'etnografia, anche se ho constatato che, a parole, il partito dell'arte è rimasto con pochi iscritti. Negli Stati Uniti la vittoria del partito dell'etnografia è stata sancita dal Nagpra (Native American Graves Protection and Reimpatriation Act, legge del 1990 con cui il Congresso stabiliva la restituzione dei manufatti sacri alle tribù di appartenenza). Però un conto è la teoria, un conto la creazione di un museo. Vedremo come sarà il nuovo Museum of American Indian. Per quanto riguarda l'Europa credo che i due modelli o i due partiti taglino trasversalmente il continente. Aggiungo, però, che sarebbe utile riflettere su alcune esperienze peruviane e messicane (mi riferisco al Museo Tumbas Reales de Sipán, al Museo de Arte Precolombino del Cuzco, al Museo del Templo Mayor di Città del Messico) che sono di enorme importanza sia sul piano concreto che su quello teorico.