sabato 7 febbraio 2004

la cultura islamica nel medioevo

La Stampa Tuttolibri 7.2.04
Quegli arabi erano nemici fraterni
Un grande affresco della cultura islamica nel Medioevo, le scuole religiose e filosofiche, l’arte e la poesia: un mondo poliedrico e autonomo, ma non antitetico all’Occidente
di Giuseppe Cassieri


SEMBRA non vi siano dubbi sulla necessità di liquidare senza rimpianti la visione occiduocentrica di cui siamo portatori, sani e insani, e penetrare con adeguati strumenti ricognitivi all’interno del fenomeno Islam. Fenomeno tra i più complessi che si presentino agli storici di ogni disciplina, spesso ridotto a greve fantasma etnico-religioso e connesse ricadute geopolitiche. L’affollamento dei titoli sulla «questione» islamica non inganni. Certo, è sintomo di accresciuto interesse per uno scenario fino a ieri approssimativo o esotico, ma le pubblicazioni, magari calde e minuziose, si ispirano per la maggior parte all’immediatezza degli avvenimenti che scorrono sotto i nostri occhi, «carotano» situazioni drammatiche di forte impatto emotivo (guerre, guerriglie, attacchi terroristici), ma sempre a pelo d’acqua, con qualche pregiudiziale di scorta; mentre vorremmo capire più a fondo il determinarsi di una civiltà artificiosamente contrapposta, anziché naturaliter giustapposta, un mondo diverso ma non antinomico, una parabola evolutiva autonoma ma non autarchica, e anzi integrativa (e per molti aspetti integrata). E’ questo, credo, il merito principale di un gigantesco volume della Salerno Editrice, La cultura arabo-islamica, a cura di Biancamaria Scarcia Amoretti, nella collana «Lo spazio letterario del Medioevo». Testo a più voci, con un ampio saggio introduttivo di Franco Cardini, «Nemici fraterni»: felice ossimoro che si propaga nelle quattro sezioni della materia trattata, a partire da «La specificità dell’Islam», ovvero il suo essere plurale, assai poco identificabile come avamposto di un Oriente antitetico all’Occidente, se si tiene conto delle società eterogenee assemblate nel «suo» Medioevo: Cristiani ed Ebrei, Arabi e Persiani, Turchi e Berberi, Spagnoli e Siciliani... Un gruppo di studiosi, che riducono al minimo le difficoltà tecniche del linguaggio comparativo e della traslitterazione, invitano il lettore a seguirli in un itinerario di circa sei secoli: dal 662 - l’anno in cui Muhammad lascia con un gruppo di compagni la Mecca - al 1258 che segna la fine del califfato abbaside. I temi, in larga misura affascinanti e alcuni imprescindibili, comprendono ad esempio l’immaginario artistico, l’uso sapientissimo della disputa, la superba tradizione speculativa, medica, matematica, i tesori di al-Andalus, la funzione enciclopedica della «madrasa» tra corte e città, tra massa e potere; la Toledo di Alfonso X il Saggio, la scuola irachena, il ciclo del Mi’rag che decanta l’ascensione celeste di Muhammad, e possibile influenza sulla Commedia dantesca; oralità e scrittura, e l’importanza della lingua araba che permette di accedere a esperienze culturali più lontane: Persia, India, Cina. Più in dettaglio, vorrei almeno segnalare gli ottimi saggi di Leonardo Capezzone su elaborazione e gestione del sapere, e i luoghi deputati: la Moschea, la Corte, la Cancelleria. E l’intero capitolo sul concetto di adab. Termine che si approssima a «educazione», «cultura», «urbanità», ma le trascende in una prospettiva etica della conoscenza. Senza trascurare l’analisi di Mauro Zonta sulle modalità di trasmissione dei testi arabi in ebraico e la tradizione dei testi filosofici, scientifici e letterari. O le pagine di Dominique Urvoy sulla polemica confessionale in al-Andalus e sul ruolo dei convertiti. Ma, nella fitta trama del volume, mi attira qui particolarmente il contributo di Alberto Ventura sulla produzione mistica dell’Islam correlata al sufismo. Spesso distanti, ma non distaccati dalla dottrina coranica, i Sufi sviluppano in senso verticale, in senso ascetico, la riflessione sul messaggio divino, anche se non vantano una propria teologia. Così come, pur non vantando una propria filosofia, ci offrono le proiezioni più originali del pensiero islamico. Senza contare la letteratura esegetica, il vasto patrimonio poetico - talora assimilabile alla poesia trovadorica, stilnovistica - che pone al vertice l’arabo di Spagna Ibn al-’Arabì e il persiano Galalal-DinRumi; l’epica del martirio nella narrativa popolare e la sublimazione del martire per eccellenza, al-Hallag, condannato a morte dal califfo di Baghdad nel 922 perché teorico e praticante estremo della Unio mystica. Ma non è davvero secondario l’atteggiamento «ecumenico» del sufismo rispetto alle tendenze canoniche. Un atteggiamento di civile riguardo, di amorosa interazione «dall’alto» con le componenti di altre civiltà. «Interpretando la parte più flessibile dello spirito islamico - conclude l’autore - il sufismo ha toccato corde dalla risonanza universale». Parole auree, pressoché aliene nello scacco della realtà quotidiana, e tuttavia indispensabili se aiutano a propiziare il miracolo.