sabato 7 febbraio 2004

la maschera

La Stampa Tuttolibri 7.2.04
DALL’AFRICA AL GIAPPONE, TRAVESTIMENTI E SIMBOLI DELLA NOSTRA IDENTITÀ:
UNA MOSTRA A TORINO
di Marco Aime


SARÀ perché non ci bastiamo, perché questa identità unica che ci viene attribuita dalla società a volte ci sta un po' stretta, sarà per questo che usiamo le maschere. Dai teatri greci dell'antichità alle danze rituali di tutti i continenti troviamo figure che si presentano al pubblico con un volto che non è il loro, che li porta fuori da sé. La maschera diventa un intermediario tra chi parla, chi danza, chi prega e chi assiste e il volto che presenta a volte trascende l'umano. Sono diventate celebri alcune maschere africane, divenute una sorta di muse ispiratrici per artisti come Picasso, Legér, Brancusi. Maschere che scompongono il volto umano in parti separate che assumono forme e linee autonome rispetto al corpo originario. Gli occhi diventano coni sporgenti che sembrano voler fuggire dalla piattaforma del volto, la bocca un parallelepipedo slanciato all'infuori, le orecchie dei tubi tesi a captare chissà quale suono o melodia. Quel volto che guardiamo ci fa capire di essere stato umano, ma anche che lo sguardo dell'artista lo ha portato su un percorso diverso. Dopo aver letto il viso umano nel suo insieme, l'autore lo ha spezzato, frantumato. Poi il suo sguardo è andato oltre, restituendoci solo alcuni cenni essenziali per mantenere quell'aria di famiglia necessaria alla comprensione. Ma quella maschera ci porta in un'altra dimensione, dove la percezione muta. Non è solo un nascondere il viso: basterebbe un fazzoletto, un velo. La maschera nasconde un viso per riproporne un altro. Come le maschere da danza degli indiani della costa del Nordovest americano che, come spiega Lévi-Strauss, «si aprono come due battenti per mettere in mostra un secondo volto e, in alcuni casi, un terzo dietro il secondo, tutti segnati dall'impronta del mistero e dell'austerità, attestano l'onnipresenza del sovrannaturale ed il pullulare dei miti». Ecco perché presso molti popoli questo oggetto rappresenta un medium necessario in molte cerimonie rituali. Allontanandoli da loro stessi, con una finzione che diviene realtà, la maschera spinge certi specialisti rituali verso il mondo degli antenati e delle divinità, in un tempo mitico che non è degli uomini. Proprio per questo occorre disumanizzarsi, abbandonare il corpo che ci accompagna quotidianamente, camuffarlo con abiti, gesti e un volto che non ci sono consueti. La maschera è un'eccezione. Abbandonare il solito corpo, ma non il corpo. Perché la maschera non vive di per sé stessa, non è una scultura, nasce per essere indossata ed è nel suo connubio con la carne e i muscoli degli uomini che trova il suo soffio vitale. Ondeggiante nei movimenti di una danza, la maschera esprime tutto il suo carico di segni, il suo repertorio evocativo. Appoggiata per terra, al muro di un’abitazione o relegata nella teca di un museo, conserva solo il suo valore estetico, cessa di essere parte attiva di una comunità e diventa arte o, peggio, bene culturale. La maschera non è solo legata al rituale, al mondo del sacro. Con il suo campionario di segni, la maschera è un codice, esprime un linguaggio. Indossata, diventa un'estensione del corpo e lo aiuta a comunicare. Nel museo etnografico di Porto Novo, nel Benin, sono conservate maschere bellissime, dalle fogge bizzarre, vere e proprie sculture a soggetto. Alcune, le più vecchie, rappresentano simboli religiosi, mitici, altre, più recenti, raffigurano motti e proverbi. La maggior parte di queste sono a carattere satirico. C'è il fanfarone con una grossa pancia, un missionario sospettato di frequentare donne scolpito in pose equivoche, il colono con aria tronfia e ridicola, il pagano convertitosi al cristianesimo, la donna che accompagna due bambini vestiti da coloni e l'adultero con un viso che ricorda la parte del corpo che più utilizza per meritarsi l'accusa di libertino. Poi, ne appare una sulla cui cima c'è un dottore in camice bianco, con una siringa in mano e una paziente sdraiata sul lettino. Viene utilizzata in performances eseguite nei villaggi per sensibilizzare la gente sulle vaccinazioni. Funziona perché la maschera appartiene all'immaginario locale, è percepita come una cosa familiare. Solo attraverso un codice condiviso e tradizionale è possibile veicolare un messaggio attuale come una campagna di vaccinazione. Ecco l'incredibile capacità d'innovazione e l'ironia della tradizione africana. Da noi, è il Carnevale il tempo dei capovolgimenti, del mondo all'incontrario. Storicamente in questo periodo prequaresimale tutto era concesso e, dietro al presunto anonimato concesso dalla maschera, avveniva il capovolgimento dei valori: i poveri la facevano ai ricchi, i moralisti venivano presi di mira. La maschera, che del carnevale è forse il simbolo più conosciuto, serviva all'inizio soltanto a celare il volto della persona, ma è andata via via assumendo un carattere sempre più spiccato fino a diventare protagonista assoluta della festa. Come a Schignano, un piccolo paese della Val d'Intelvi, sui monti del Lago di Como, dove le maschere si sono divise la piazza formando due partiti opposti: i "belli" e i "brutti". Scolpite con il legno di noce, le maschere vengono preparate da scultori locali che ogni anno rinnovano questa antica tradizione. Si dice che le prime maschere dei "belli" siano state portate a Schignano dal Perù dagli emigranti locali qualche secolo addietro. Spicca tra i "belli" il mascarun: con il suo abito riccamente decorato, ricorda il signorotto spagnolo a cui è legata con una corda la ciocia, una figura femminile rappresentata da un uomo travestito; è la donna resa schiava dal signore che in questa occasione si unisce ai "brutti" e copre di insulti il suo padrone. Ecco il tema più antico del carnevale che torna a galla: per una volta nell'anno, il servo può insultare il padrone, le regole si capovolgono. Se i "belli", che sfilano orgogliosi del loro fascino rappresentano il potere, la ricchezza e il benessere, i "brutti", con danze animalesche, urla e corse che li fanno sembrare dei pazzi, ricordano la povertà che affliggeva queste valli del Comasco, il tempo in cui si era costretti ad emigrare per sopravvivere. Maschere, finzioni, travestimenti che però ci riportano a una realtà dura e reale, a un passato non ancora troppo lontano da poter essere pensato senza una certa rabbia o un certo timore e che, forse, diventano accettabili solo perché camuffati e volti in burla, ridicolizzati. Come quando si ride forte per esorcizzare una paura.

La Stampa Tuttolibri 7.2.04
Nel teatro No rappresenta
Angelo Z. Gatti


IL No, il teatro classico giapponese originato dalle danze sacre eseguite nei templi shintoisti e buddhisti e un tempo riservato alla corte e ai samurai (cui era proibito assistere al più popolare kabuki), fa uso di maschere come l’antico teatro greco. Il No, definito «dramma lirico» di recitativo, canto, musica e danza, è un’azione scenica non realistica e stilizzata, di pura forma evocativa e poetica, e la maschera, nel creare il senso di mistero e di distacco dal mondo terreno, ne accentua l’aspetto antinaturalistico e la forte valenza simbolica. Dal XV secolo quando Zeami, lo Shakespeare giapponese, codifica con i suoi «Trattati» il No e lui stesso ne è autore e interprete, abili e raffinati artigiani dedicano grande attenzione alla scultura di maschere, che oggi sono di legno, sono dipinte e intagliate a mano. Ce ne sono una settantina di tipi: la koomote, la notissima maschera dall’espressione dolce che rappresenta la fanciulla all’alba della vita, lo spirito dei fiori o gli amanti morti in gioventù e che, essendo di piccole dimensioni, non copre per intero il viso dell’attore; la waka-onna, la donna tra i 20 e i 25 anni; la hannya, il demone della gelosia femminile, bianca o rossa a seconda dell’età del personaggio; la ja, spettrale e terrificante, sempre la gelosia, ma più esasperata... Solo l’attore protagonista, lo shite, porta la maschera (a volte anche l’intermediario, il waki, quando impersona una donna), e sta nella sua professionalità, educata in anni di studio e di addestramento, e nelle sue capacità artistiche il saperne superare la fissità: un leggero quasi impercettibile movimento del viso, con il gioco di luci e di ombre sul palcoscenico, fa mutare l’espressione al personaggio, dalla gioia all’infelicità, dalla serenità al corruccio, dall’allegria alla tristezza. Del resto No significa «abilità», «talento».