Repubblica 6.3.04
Cina, la "rivoluzione economica"
Stop alla crescita selvaggia, spazio a chi è rimasto indietro
Il premier Wen Jiabao annuncia aiuti per i contadini e investimenti in scuole e sanità
È un cambiamento radicale in una ricetta di sviluppo finora centrata solo su bassi costi e alti profitti
di RENATA PISU
Abbandonare la cieca adorazione del Dio Prodotto Nazionale Lordo, raffreddare la crescita economica, preoccuparsi delle condizioni di vita nelle campagne, ridurre il fardello delle tasse che gravano sulle spalle dei contadini. E poi riconoscere la proprietà privata, i diritti umani. Questo ed altro ha proposto ieri a Pechino, all´apertura dei lavori dell´Assemblea Nazionale del Popolo, il premier Wen Jiabao. Un discorso lungo due ore che ha tenuta viva l´attenzione dei tremila deputati di quello che sarebbe il Parlamento della Cina, dove le sessioni si svolgono sempre senza imprevisti, in un´atmosfera sonnacchiosa e compunta, da grande messa cantata.
Ma ieri le franche parole di Wen Jiabao hanno dato la scossa, mutando l´annosa coreografia rimasta invariata dall´epoca di Mao nonostante in Cina tutto sia ormai cambiato. Sono cambiati anche i leader del partito unico che ha guidato il paese nel processo di crescita più dinamico della storia recente e Wen Jiabao, al cui fianco si trovava il presidente Hu Jintao, rappresenta la nuovissima leva, in carica da poco più di un anno, una generazione che si è fatta le ossa alla scuola dell´economia ma che si è resa conto della necessità che in Cina si tornasse a parlare concretamente anche di politica.
Riconoscere, come ha fatto Wen Jiabao, che la rapida crescita industriale ha peggiorato le condizioni di milioni e milioni di contadini nelle campagne, è, infatti, fare un discorso politico; promettere di investire nella scuola e nella sanità per anni trascurate è, ancora, parlare da politico, come lo è impegnarsi a garantire una gestione sempre più democratica, a tutti i livelli della pubblica amministrazione.
Ma come raffreddare l´economia? Come riuscire ad abbassare il tasso di sviluppo dal 9,1 per cento dell´anno scorso al 7 per cento nel 2004? La prima misura, indicata da Wen, è restringere il credito, controllare il sistema bancario assai debole, molte altre misure sono allo studio: saranno aumentati nella misura del 20 per cento gli investimenti nell´agricoltura e che la pressione fiscale sui contadini, oggi estremamente pesante e spesso aggravata dall´imposizione di stravaganti imposte da parte dei dirigenti delle zone rurali, verrà gradualmente ridotta fino a sparire nel 2009. Così i nuovi leader cinesi si aspettano di ridurre il divario sempre più oltraggioso tra città e campagne che minaccia la stabilità sociale, con settecento milioni di persone della Cina interna che arrancano dietro ai più fortunati abitanti delle fasce costiere.
Wen Jiabao non ha fatto un discorso politico diretto, non ha parlato di giustizia sociale: vi ha però alluso. I suoi consiglieri sono più espliciti. Il Quotidiano del Popolo ieri riferiva il parere di un funzionario della provincia dello Henan. «Dobbiamo pensare alla crescita economica da un altro punto di vista, dobbiamo essere fieri se il governo investe sugli anelli più deboli della società». Una volta si chiamavano "proletari", comunque sono gli stessi. E´ tuttavia significativo che Wen Jiabao nel suo discorso che per molti versi suona "rivoluzionario", abbia insistito sulla necessità di adottare il "concetto scientifico dello sviluppo" senza ricorrere a retoriche vetero o neo proletarie.
Ora non si sa se "l´economia al primo posto", modifica di un vetero-slogan maoista che suonava "la politica al primo posto", abbia fatto male o bene alla Cina. Ad ogni modo l´ha fatta crescere e maturare fino al punto in cui si può di nuovo affrontare questi temi sui quali per almeno due decenni è stata messa ufficialmente la sordina. C´è un´altra opinione che vale la pena di citare, riportata ieri dal Quotidiano del Popolo. Un funzionario del Guandong, provincia costiera dove il tasso di crescita è stato l´anno scorso del 17 per cento - e come si farà mai a ridurlo? Come si può far calare questa febbre? - ha detto: «Certo, il tasso di crescita è importante, ma mi sembra più importante cosa la gente ci guadagna, quale è la ricaduta sociale. Io direi che una crescita del 7 per cento, combinata con misure appropriate a risolvere certi problemi, sia sufficiente». Bravo. E´ stata orchestrata una campagna a favore della filosofia dello sviluppo dal volto umano che Wen Jiabao ha ieri proposto? Probabile. Ad ogni modo Wen il politico, non il burocrate, ieri ha detto quello che la maggioranza dei cinesi speravano che fosse finalmente detto.
una segnalazione di Sergio Grom:
Repubblica 6.3.04
Shangai da Mao al lusso
La città dove il Pcc tenne il primo congresso è diventata un esperimento post-industriale
Shanghai, l´Asia di domani da Mao al trionfo del lusso
Una generazione di figli unici che spesso decide di non creare una famiglia propria
Una metropoli di venti milioni di abitanti: si prepara a essere la New York del XXI secolo
Niente più biciclette, ora le vie sono intasate da automobili costose E il solo "diritto alla targa" può costare 5000 dollari al mese
DAL NOSTRO INVIATO
FEDERICO RAMPINI
SHANGAI. «HO vissuto a Los Angeles e a Parigi, oggi non ho dubbi: il centro del mondo si è spostato qui a Shanghai» dice Liu Tao, che per gli occidentali si americanizza il nome in Teddy Liu. 28 anni, giornalista del Jiefang Daily, Liu ha tutti i tratti della nuova middle class urbana che sta cambiando la storia della Cina. La moglie che lavora per una investment bank. La Chevrolet spider. La spesa all´ipermercato francese Carrefour. E l´orgoglio tipico dello "shanghainese", cittadino di una metropoli di 20 milioni di abitanti che secondo Time avrà nel XXI il ruolo che fu di New York nel secolo scorso
Dal bar panoramico all´87° piano del Grand Hyatt Hotel dove incontro Liu, non è difficile credere a quella profezia. Attorno a noi la New York dell´Asia ha già superato in audacia il modello originale. Il quartiere direzionale di Pudong con i suoi quattro milioni di metri quadri di spettacolari grattacieli elevati in soli dieci anni, fa sembrare gli Stati Uniti un continente antico. Gli stessi americani appaiono soggiogati dal fascino di questa sfida: il magazine di moda del New York Times fa indossare le nuove collezioni alla top model Qi Qi, la Linda Evangelista cinese, sullo sfondo dei paesaggi futuristici di Pudong. Il Wall Street Journal intitola il suo supplemento turistico "Shanghai Chic" ed elenca gli ultimi hotel a cinque stelle inaugurati di recente: Marriott, Four Seasons, Ritz-Carlton, St.Regis.
Armani, Bulgari, Louis Vuitton o Rolls Royce, nessuna firma del lusso può permettersi di non avere negozi a Shanghai, e gli Universal Studios per sfruttare l´afflusso turistico dal mondo intero costruiscono qui la replica del loro parco attrazioni di Hollywood. Alle ore di punta le Audi hanno sostituito le biciclette nel creare ingorghi asfissianti sulle grandi arterie metropolitane, e a pochi mesi dal suo primo Gran Premio di Formula Uno questa città deve contingentare il traffico con soluzioni audaci: le nuove immatricolazioni vengono messe all´asta, un massimo di seimila al mese. Per poter comprare una macchina nuova il solo «diritto alla targa» può salire fino a 5.000 dollari al mese. Quasi in un lampo Shanghai ha cancellato decenni di austerità comunista e si è riconquistata il posto che aveva negli anni Venti. La Parigi dell´Asia, si diceva allora (alcune tracce di quel lusso non sono mai scomparse dal quartiere coloniale francese, nel centro storico sull´altra riva del fiume Huangpu), quando la ballerina Margot Fonteyn decantava la raffinatezza dell´Astor House Hotel. Cosmopolita, raffinata, e spietata. La città delle diseguaglianze sociali più stridenti, dove il partito comunista di Mao tenne il suo primo congresso. Come ottant´anni fa, oggi Shanghai non rappresenta tutta la Cina però le indica un futuro possibile. A Pudong hanno costruito l´hotel più alto del pianeta, il grande magazzino più immenso, la torre della tv più elevata, il treno più veloce. L´obiettivo è superare il mondo, cioè l´America.
La vita privata di Teddy Liu rivela una società che si è trasformata bruciando le tappe. Un secolo di evoluzione sociale europea o americana sembra compresso nella storia di una generazione cinese, balzata in pochi anni dai problemi di un paese emergente a quelli di una società post-industriale. A cominciare dal nucleo fondamentale della vita sociale, la famiglia. Sia Liu che sua moglie sono figli unici, come molti loro coetanei. Uno sconfinato esercito di giovani cinesi non ha fratelli né sorelle. Sono il risultato di una severa politica di controllo delle nascite, quando il partito comunista dichiarò guerra all´esplosione demografica e impose sanzioni dure alle coppie che facevano più di un figlio. Ma l´economia di mercato ha fatto ancora di più. Liu e sua moglie hanno deciso, senza che nessuno li costringesse, di non avere neanche un figlio. Non sono una eccezione. Per le coppie della loro età e al loro livello di reddito, la scelta «zero figli» dilaga. Dal 1990 a oggi, in coincidenza con l´esplosione del capitalismo le nascite sono crollate del 30 per cento. In parte è una reazione speculare alla vita dei genitori cinquantenni, che la politica del figlio unico aveva reso protettivi oltre misura: troppi sacrifici, troppa dedizione al prezioso discendente. E´ anche l´altra faccia del disimpegno che ha accompagnato il decollo economico degli anni '90, dopo la repressione dei moti studenteschi della Piazza Tienanmen nel 1989. Liu ne è la prova. «Prima facevo il giornalista politico, ora preferisco scrivere di business, è più eccitante. Sì, credo che questo spostamento di interessi sia generale tra i miei coetanei». «Ho molti di questi ragazzi tra i miei collaboratori, in quella classe di età divenuta adulta dopo Tienanmen - conferma Victor Ho, un avvocato d´affari di Shanghai tornato in patria dopo anni di lavoro a Hong Kong -; la loro è una generazione di individualisti, edonisti, vogliono conquistarsi una fetta più alta del benessere materiale il più presto possibile». L´economista Liu Xin dell´università di Shanghai descrive i suoi studenti «pervasi da un cinismo profondo, perché dall´età di dieci anni hanno studiato su manuali di propaganda, arrivati a diciott´anni sanno che è tutto falso e non credono a niente, non leggono niente, vogliono solo un diploma, i soldi, la carriera».
Nella Shanghai di oggi, competitiva e ambiziosa, allevare un bambino costa caro se questo figlio deve essere un "vincitore". La scuola pubblica non garantisce un futuro di successo. Esplode il business delle istituzioni private che offrono insegnanti di inglese madrelingua e corsi intensivi di matematica fin dalla tenera infanzia, per preparare candidati ai master nelle università americane. L´iscrizione al "3+3 Kindergarten", una scuola materna privata e bilingue in un ricco sobborgo residenziale di Shanghai, costa 3.000 dollari all´anno. E´ l´intero salario di un insegnante e quasi il doppio del reddito medio degli abitanti di Shanghai. Per i super-ricchi, i tycoon del neocapitalismo che abbondano a Shanghai, sono spiccioli; ma per il ceto medio il sacrificio è serio. «Come è possibile pagare rette scolastiche simili? Semplice: sei membri di una famiglia si tassano e contribuiscono coi risparmi di una vita, per finanziare l´istruzione di un solo bambino», spiega Sam Wu, presidente del 3+3 Kindergarten, gestito da una società privata di Taiwan. Al liceo Dulwich College, proprietà di imprenditori locali e di una rinomata scuola privata di Londra, le famiglie pagano fino a 12.000 dollari di retta all´anno «e nessuno ha mai obiettato sul costo», secondo Fritz Libby, fondatore della joint venture anglo-cinese.
Chi può pagare senza difficoltà queste somme per un´istruzione di lusso abita probabilmente in un quartiere che si chiama Palm Springs o Long Beach, Park Avenue, Napa Valley. Sono i nomi dei condomini di lusso che spuntano come funghi, contendono il terreno edificabile alla speculazione immobiliare dei grattacieli per uffici. Per comprare un appartamento il prezzo medio è 800.000 dollari. Le spese di condominio includono le guardie private: protetti dalla vigilanza 24 ore su 24, i proprietari vivono dietro muri e cancelli blindati. Un esercito sottoproletario si sposta dalle campagne per venire ad accudire questi nuovi ricchi. La donna di servizio - un mestiere impensabile per l´ideologia ufficiale comunista di vent´anni fa - oggi è un piccolo lusso alla portata di molti. Con l´equivalente, in yuan, di 50 dollari al mese più vitto e alloggio una ragazza di campagna è a disposizione a casa dei padroni per sette giorni alla settimana, dieci ore al giorno.
Il divario tra le due Shanghai, quella di Armani e quella del lumpenproletariat rurale, è un metro di misura della distanza percorsa dalla nuova Cina. Ancora vent´anni fa questo era un paese austero, dai consumi razionati, ma con diseguaglianze sociali fra le più basse del mondo. Oggi gli stessi studiosi cinesi riconoscono che il dislivello di reddito tra i più ricchi e i più poveri ha superato quello degli Stati Uniti e - forse ancora più incredibile - dell´India. «Il capitalismo oggi è l´unica risposta al nostro bisogno di sviluppo, che è ancora forte - dice l´economista Liu Xin -, era sbagliato pensare che l´equità sociale potesse avere la precedenza finché eravamo un paese povero in attesa del decollo. Ma la Cina di oggi è ancora prigioniera di una sorta di illusione marxista: l´idea che l´economia è onnipotente, che lo sviluppo cura e risolve tutto. Così siamo passati dal totalitarismo comunista a un capitalismo autoritario sul modello di Singapore. Forse le aspirazioni alla giustizia sociale si prenderanno una rivincita presto, non appena saremo una società più matura». Per ora regge la tregua tra le due Shanghai, quella della Formula Uno, degli yuppies senza figli, dei college bilingui, e quella delle giovani serve venute da lontano che parlano dialetti strani: con 50 dollari di stipendio al mese, i tre milioni di lavoratori immigrati dall´entroterra riescono ancora a mandare a casa dei risparmi. Per i familiari rimasti in campagna quell´assegno che arriva dalla lontana Shanghai è il nuovo benessere cinese.
(1 - continua)
il manifesto 6.3.04
La seconda rivoluzione cinese
Rispetto dei diritti umani e inviolabilità della proprietà privata: nel suo discorso all'assemblea del popolo, il premier Wen Jiabao ufficializza la svolta della Repubblica popolare. E suggerisce: arricchitevi, ma non così in fretta
di ANGELA PASCUCCI
La necessità di mettere un freno alla corsa dell'economia, la situazione di drammatica povertà delle campagne, il divario crescente della ricchezza tra province, le diseguaglianze economiche e sociali sempre più accentuate, l'iscrizione nella Costituzione dell'inviolabilità della proprietà privata con un emendamento che parla di rispetto dei diritti umani, timidi accenni alla riforma del sistema politico. L'Assemblea del popolo cinese potrà anche non decidere nulla che non sia già stato stabilito dai vertici del Partito, ma i suoi raduni annuali diventano sempre più densi e interessanti, per l'agenda di discussione che la leadership, pressata dalla realtà, impone. E quest'anno, rischiano di non bastare ai 3.000 delegati i 10 giorni canonici dedicati alla riunione annuale plenaria annuale, che si è aperta ieri a Pechino. Il discorso di apertura del premier Wen Jiabao è di quelli destinati a far discutere per i contenuti e le proposte che prefigurano ancora una volta cambiamenti notevoli per la Cina, ma ormai anche per il resto del mondo, nel quale l'antico Impero di mezzo si è profondamente innestato, rappresentando oggi la sesta economia mondiale e l'unica che ancora avanza a tutta velocità.
Nel discorso di un'ora e 50 minuti di relazione sullo stato del paese, molti i punti di rilievo. Tra i più importanti, l'esortazione a tirare le redini all'economia che, dopo 25 anni di corsa, rischia di far venire l'infarto all'intero sistema socio-economico-ambientale, che questa velocità non regge. Tutto va dunque ridimensionato, a partire dal tasso di crescita, che per il 2004 è fissato al 7%, quando quello del 2003 aveva toccato il 9,2%. Di pari importanza, la questione dei contadini, 900 milioni di persone messe da parte dall'attuale politica economica e dal tipo di sviluppo privilegiato finora. Una forza enorme e destabilizzante, sia quando rimane nelle campagne e si ribella alla propria condizione di miseria e alle vessazioni fiscali, sia quando invade le le ricche città, delle quali sostiene la crescita ma nelle quali viene sfruttata ed emarginata.
Affrontare questo problema «è la parte più cruciale di tutto il nostro lavoro» ha detto Wen Jiabao, che non è stato reticente nel dipingere la situazione. L'economia soffre di investimenti eccessivi e decisi in modo casuale, di un settore delle costruzioni ridondante, di un sistema bancario gravato da 250 miliardi di dollari di crediti pressoché inesigibili, di scarsità di fonti di energia e di materie prime, di una caduta della produzione di grano e dell'appropriazione illegale delle terre. Nel mentre che la società è messa sotto pressione da un tiro incrociato di problemi: «i redditi rurali crescono troppo lentamente; il compito di accrescere l'occupazione e la sicurezza sociale è arduo, lo sviluppo delle differenti regioni del paese è squilibrato, il divario dei redditi tra i diversi strati sociali è troppo vasto e la pressione sulle risorse e l'ambiente sta montando». In gioco è la stessa governabilità della Cina, e la legittimità dell'attuale leadership e del Partito, anche se questo il premier non lo dice.
Il tempo a venire si preannuncia dunque duro, ma lo sarà certo di più qualora Pechino non corresse ai ripari. Di fronte alla portata delle questioni centrali, tutto il resto del discorso impallidisce. Eppure non è da poco. Wen Jiabao ha parlato di Taiwan, per dire che Pechino è ponta a riprendere il dialogo, purché si parli sotto il segno di «una Cina». Il che equivale a ribadire una posizione immutata che non tiene conto di quel che accade dall'altra parte dello Stretto, dove sta montando la fronda anti Pechino e si prepara un referendum contro i missili. Il premier ha anche promesso lotta dura contro il crimine organizzato e la corruzione interna, ma la battaglia «più profonda» sarà quella contro «i culti». E poi quell'accenno alle riforme politiche sul quale gli esperti eserciteranno il loro acume, per capire come vada tradotta la frase: «Concreti e prudenti sforzi saranno fatti per promuovere la ristrutturazione politica». Comunque è certo che, alla fine di tutto, il 14 marzo, la Costituzione cinese conterrà due novità non da poco: il rispetto e la garanzia dei diritti umani da parte dello stato e l'inviolabilità della proprietà privata ottenuta con mezzi legittimi. Con il che si apre un' ulteriore contraddizione, stavolta nominalistica, per il Partito comunista che nella sua denominazione cinese «gongchan dang» significa «partito della proprietà pubblica». Ma, quanto a contraddizioni, non è la certo prima, e non sarà l'ultima.
il manifesto 6.3.04
Contrordine compagni: «rettifichiamo» Deng
La quarta generazione lancia un nuovo modello di sviluppo «sostenibile»: una decelerazione economica per evitare la catastrofe
Fame di energia Pechino rischia il collasso da iperattività. Lo dimostrano i frequenti black out e i continui razionamenti idrici
di A. PA.
La nuova leadership cinese, quella della cosiddetta Quarta Generazione non ha certo aspettato l'Assemblea del popolo riunita a Pechino per cominciare a cambiare rotta. Già a febbraio ha organizzato una settimana di studi per gli alti quadri delle province e dei ministeri allo scopo di «rettificare» la politica di riforme che dai tempi di Deng Xiaoping, il suo architetto, non è stata mai toccata. Quale dovrebbe dunque essere la nuova direzione di marcia? Basta col restare incollati ai tassi di crescita a tutti i costi del Pil, bisogna pensare a uno sviluppo «che abbia al centro la gente, e dunque inclusivo, coordinato, sostenibile». Non è un proclama neo global, ma il discorso tenuto dal vice presidente Zeng Qinghong all'apertura del seminario, il 16 febbraio scorso (riportato dal South China Morning Post del 18 febbraio). L'enunciato non è certo farina del suo sacco, ma fa parte del cosiddetto «concetto scientifico di sviluppo» che sarebbe al centro del pensiero della nuova leadership, rappresentata dal presidente Hu Jintao e dal premier Wen Jiabao. Se così fosse, per l'economia cinese si prepara ufficialmente una fase di decelerazione dalle caratteristiche inedite, dopo la corsa a rotta di collo che, tra fasi alterne, dura ormai da 25 anni e ha cambiato faccia al paese. Una fase necessaria, avvertono ormai da mesi gli osservatori attenti di questa crescita abnorme, che suscita meraviglia, visti i tempi grami, e speranze di traino per le economie a rimorchio. Ma che produce anche preoccupazione per il malessere e le storture che genera nel corpo della società cinese e gli squilibri che induce nell'economia globale. Una sorta di bulimia da arrestare prima che tutti ne restino avvelenati. L'avvertimento lanciato ieri dal premier Wen Jiabao è stato in questo molto chiaro.
Dietro il trionfale tasso di crescita del 9,1% nel 2003, per alcuni persino sotto stimato, ci sono infatti eccessi di ogni genere. Essendo che il dio Pil è stato, almeno finora, il totem e il metro di misura universale per giudicare la validità delle azioni intraprese, per essere promossi i quadri locali si sono dati a vere follie. Più di 20 province hanno oggi nei loro piani di sviluppo impianti di assemblaggio per la produzione di automobili. Ormai si produce qualunque cosa a ruota libera senza che, nella maggior parte dei casi, sia certo lo sbocco di mercato. Con effetti devastanti, in termini di spreco di fondi e di risorse, di sovrapproduzione, di surriscaldamento dell'economia da una parte e di deflazione dall'altra, di crediti inesigibili, che ormai costituiscono una mina vagante per il sistema bancario cinese. Intanto, il paese è diventato il secondo importatore mondiale di petrolio, dopo gli Usa, e copre la metà del consumo mondiale di cemento.
Ma la sua fame insaziata di energia, rivelata dai frequenti black out elettrici e dai razionamenti di acqua nelle grandi città, gli fa toccare con mano i limiti strutturali della propria crescita. Oltre a porgli la necessità di ripensare al proprio ruolo nello scacchiere geopolitico mondiale. Per non parlare del disastro ambientale che già ora si profila in tutta la sua ampiezza.
Le città invase dalle campagne
Un'iperattività che, tirate le somme finali, registra un saldo particolarmente negativo in termini di progresso sociale e ricchezza comune. Le ineguaglianze continuano ad approfondirsi. Tra le zone costiere e quelle dell'interno, fra campagna e città. Lo scorso anno, dicono i dati dell'Ufficio nazionale di statistiche, i redditi dei residenti urbani sono aumentati del 9,3% (a 1025 dollari di media) ma per gli abitanti delle campagne l'incremento è stato del 4,3% (317 dollari di media). L'uno il triplo dell'altro, dunque. Uno dei divari più grandi del mondo, come ha confermato un recente studio dell'Accademia delle Scienze sociali il cui curatore, il professor Li Shi, ammette anche che le cifre probabilmente non rendono la reale ampiezza delle diseguaglianze. Tali ormai che il governo ha deciso infine di intervenire per tamponare la falla, destinando quest'anno l'equivalente di 18 miliardi di dollari a investimenti per le zone rurali.
C'è poi la campagna che irrompe nelle città, dove la frattura si riproduce in modi anche più drammatici. La celebrazione del Capodanno è diventata in questo senso un evento rivelatorio. In quei giorni le cronache erano piene di storie di contadini migranti (ormai tra i 100 e i 200 milioni di persone) e operai che non ricevono il salario da mesi e dunque non possono tornare a casa per le feste. Secondo Feng Lanrui, esperto del lavoro dell'Accademia delle scienze sociali, i migranti, che contribuiscono al 40% del reddito rurale, devono avere oggi l'equivalente di 12 miliardi di dollari in arretrati (New York Times, 10 gennaio). Le narrazioni di abusi, violenze e prepotenze feudali sono all'ordine del giorno. Come è cronaca quotidiana quella delle rivolte e delle proteste sempre più frequenti.
Le falle del «socialismo di mercato»
E' come se il nastro della storia si stesse riavvolgendo all'indietro. Persino nel Guangdong, la «fabbrica del mondo», la provincia meridionale dei record di sviluppo (oltre 10% in media nell'ultimo decennio) il salario medio di un operaio oscilla tra 50 e 70 dollari al mese, non superiore al livello del 1993. Solo che oggi la vita è molto più cara, perché si paga tutto, dalla scuola alla casa alla sanità. La Cina produce sì una montagna di nuova ricchezza, ma il «socialismo di mercato» non la ridistribuisce equamente. Come afferma la corrente dei nuovi marxisti, che sta prendendo sempre più piede e voce in Cina e che accusa la leadership di aver colonizzato i propri cittadini.
Le contraddizioni interne si riflettono a livello internazionale. Con la sua corsa, la Cina sta trainando l'Asia fuori dal pantano del 1997. E' di alcuni giorni fa la notizia che la bilancia commerciale del Giappone ha registrato un attivo record, in aumento del 393% rispetto allo stesso mese dell'anno scorso. Tutto frutto dell'export verso l'Asia, in primis verso la Cina, la cui bilancia commerciale invece comincia ogni tanto a lampeggiare.
Ma se Tokyo ride, Washington piange. Al cuore della campagna elettorale per le presidenziali americane, la fuga dei posti di lavoro verso oriente infiamma i comizi, soprattutto negli stati colpiti dal declino industriale e dal ritrarsi della new economy. Concorrenza sleale, mancato rispetto degli standard di lavoro e retributivi. Tutto vero. Ma chi si è preso la briga di andare a osservare il funzionamento della realtà (come il Wall Street Journal dell'1 febbraio scorso) ne conclude che le compagnie straniere contano per più dei tre quarti dell'export d'alta tecnologia dalla Cina. Per esemplificare: la Logitech, compagnia svizzero-americana basata in California, produce a Suzhou un mouse senza fili che vende negli Stati uniti a 40 dollari, dei quali ne restano in Cina solo 3, a coprire salari, energia, trasporti. Quanto poi al profitto effettivo che le multinazionali ricavano dalle loro attività cinesi, è «difficile da accertare», afferma il breviario del capitalismo globale, visto che molte i propri guadagni li registrano «a Hong Kong o in altre destinazioni off-shore dove le imposte sono basse». La Cina invece reinveste le riserve incassate dal surplus commerciale (103 miliardi quello registrato nel 2003 verso gli Stati uniti) in buoni del Tesoro americano. Attualmente, ne detiene 120 miliardi di dollari ed è entrata a tutti gli effetti nel rango di sostenitore primario del circo americano, che si nutre di debiti.
Grande è dunque la confusione sotto il cielo. Chi semplifica, mistifica. Ma pare proprio di poter dire che le vittime del sistema, sia a Oriente che a Occidente, si trovino tutte dalla stessa parte. Non resta che aspettare che la Quarta Generazione di leader cinesi dia attuazione alla sua ultima pensata e riesca a quadrare un cerchio che, con tutta evidenza, non sta stringendo solo i cinesi.
Corriere della Sera 6.3.04
L’enorme sviluppo dell’interscambio si riflette sui trasporti. Con effetti a catena negli scali internazionali
E il boom del gigante asiatico manda in tilt i porti mondiali
Attese di mesi per caricare le merci, con i costi che si moltiplicano
di Danilo Tain
Il primo ministro cinese ha detto ieri che la crescita del Paese è troppo accelerata, che occorre rallentare. Wen Jiabao ha giustificato la scelta con ragioni interne alla Cina, ma il resto del mondo non può che essere d'accordo: il boom dell'Impero di Mezzo, infatti, è una delle forze che trascinano la crescita globale, ma allo stesso tempo è anche la ragione di distorsioni spettacolari nei meccanismi che fanno funzionare l'economia del pianeta. L'emergenza che è maturata negli ultimi mesi ed è esplosa nei giorni scorsi riguarda i porti: il volume di merci, soprattutto materie prime, dirette verso la Cina è così consistente che i principali scali internazionali sono congestionati a un livello tale da causare ritardi mai visti e una crescita dei costi senza precedenti. «Si sta creando un effetto a catena nei porti del mondo», dice Harash Channa, vicepresidente per le operazioni portuali a Hong Kong del Noble Group, uno dei maggiori trasportatori marittimi dell'Asia.
Channa sostiene che nei porti indiani, ormai, i navigli devono attendere fino a un mese per fare un carico di minerali di ferro, la base per l'acciaio che la Cina produce a ritmi impressionanti (è la numero uno al mondo). Ma la situazione è di emergenza quasi ovunque nel mondo: ovviamente negli scali cinesi ma anche nei porti australiani (dove le attese arrivano a dieci giorni), africani, sudamericani e, in qualche caso, europei. Calcoli realizzati da alcuni esperti del settore e resi noti dall'agenzia Reuters dicono che il 25% della capacità mondiale di trasporti marittimi è in questi giorni "in coda", in attesa di poter accedere alle strutture di qualche porto.
Dal momento che l'affitto di una nave da 120-200 mila tonnellate è attorno ai centomila dollari al giorno, il costo aggiuntivo di un'attesa di un mese può arrivare a tre milioni di dollari. Che vanno ad aggiungersi ai costi già in forte rialzo - sempre grazie alla domanda cinese - delle materie prime. I noli dall'America alla Cina per trasporti di grano sono passati da 18 a 70 dollari a tonnellata in due anni. E gli effetti sono pesanti anche su acciaio, soia e petrolio. Il Baltic Dry Index, un indice dei noli marittimi di cargo che trasportano grano o minerali, l'anno scorso è cresciuto del 170% e nei primi due mesi del 2004 di un altro 10%. I noli per il trasporto di container, per parte loro, sono balzati del 30% nel 2003 e di un altro 10% quest'anno.
La situazione peggiore, ovviamente, è in Cina, dove il traffico portuale complessivo è cresciuto del 18% l'anno scorso e probabilmente aumenterà ancora di più quest'anno. Allo scalo di Beilun, vicino a Shanghai, i cargo devono aspettare attorno a un mese, prima di caricare. Hong Kong è sotto pressione. Al porto di Shenzen, in una delle zone più dinamiche della Cina - la foce del Fiume delle Perle - le cose vanno un po' meglio grazie agli investimenti massicci che hanno raddoppiato la capacità portuale negli ultimi due anni. Nel complesso, comunque, la situazione è pesantissima e, soprattutto, non si vedono miglioramenti a breve: nuovi scali e nuove navi sono in costruzione, ma prima che il loro impatto si possa fare sentire bisognerà aspettare almeno un paio d'anni, durante i quali la situazione potrebbe peggiorare.
La crisi è resa più drammatica dalla situazione dei trasporti interni alla Cina. Nelle regioni costiere, le strade sono così congestionate che le centrali elettriche rischiano il blackout perché il carbone dal nord non arriva in tempo. In alcuni porti, montagne di minerali di ferro scaricate dalle navi non sono trasportate a destinazione perché mancano i camion. E la situazione è peggiorata da speculatori che, vista la continua crescita dei prezzi, lasciano l'acciaio il più a lungo possibile nei porti sperando in prezzi sempre migliori.
Insomma, siamo all'incubo logistico, in Cina ma anche nel resto del mondo, una situazione senza precedenti. Con il rischio, dicono nel settore, che si creino due bolle, una di prezzi e una che finirà tra qualche anno in un eccesso di capacità portuali e di cargo. Ogni rallentamento della corsa indotto da Wen e dai mandarini di Pechino è benvenuto
Ansa.it 06/03/2004 - 08:51
Cina: aumentano dell'11% le spese militari
Rapporto presentato all'Assemblea Nazionale del Popolo
(ANSA) - PECHINO, 6 MAR - Nel 2004 la Cina aumentera' dell'11,6% le spese militari, secondo il rapporto presentato oggi all'Assemblea Nazionale del Popolo. L'aumento e' significativo perche' avviene in un momento nel quale gli sforzi sono concentrati sulla sicurezza sociale e sulla riduzione degli squilibri tra citta' e campagna creati dall'impetuoso sviluppo economico degli anni passati.
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