martedì 2 marzo 2004

«se non si curano sono matti»

La Stampa 02 Marzo 2004
IL CASO DELLA DONNA CHE RIFIUTA DI FARSI OPERARE
Se non si curano sono matti
Marco Cappato, deputato europeo radicale ed Emanuele Calò, giurista


NELLE scorse settimane è morta una signora, colpita da una grave forma di diabete, la quale aveva rifiutato l'amputazione di un arto, indicatole come estremo tentativo di salvarle la vita. Erano state avanzate diverse proposte di trattamento sanitario obbligatorio, poi lasciate cadere. Ora, si ripresenta a Sanremo un caso pressoché identico, per il quale invece si tenterebbe la via dell'interdizione della paziente, al fine di sopperire al suo rifiuto. Il Presidente del Tribunale di Sanremo, Gianfranco Boccalatte, ha già depositato la sentenza di interdizione a carico della donna, nominando un tutore dal quale si attende la sottoscrizione del consenso informato all'intervento chirurgico.
La necessità del consenso individuale al trattamento medico è un principio universale, sul quale il nostro legislatore non ha ritenuto di esprimersi, ma che la Cassazione considera abbia la sua base normativa soprattutto nell'art. 32 della Costituzione. Nel frattempo, è entrata in vigore la Convenzione di Oviedo del 1997, che afferma il medesimo principio, da considerarsi dunque discendente anche dal diritto internazionale convenzionale.
Il principio del consenso al trattamento medico (così come la stessa origine della bioetica) si fa risalire ai processi di Norimberga, nei quali furono puniti coloro i quali avevano effettuato trattamenti sanitari prescindendo dalla volontà del paziente. Si tratta, in ogni caso, di un principio accolto da tutte le nazioni civili, sul quale nessuno avanza alcun rilievo.
Nemmeno da noi si osa mettere in forse questo principio, ma si è forse trovato un modo per vanificarlo. Basta infatti sostenere che il paziente che rifiuti un trattamento di potenziale giovamento sia necessariamente un po' «matto». La dura lettera della legge, invero, chiederebbe ben altri requisiti: l'articolo 414 c.c. richiede per l'interdizione che si sia «in condizioni di abituale infermità di mente che rende incapaci di provvedere ai propri interessi», mentre la disciplina d'urgenza in materia di trattamenti obbligatori fa riferimento a gravi alterazioni psichiche.
E invece no: le notizie giornalistiche sul caso in questione riferiscono di «problemi psicologici» del soggetto, non di «totale incapacità d'intendere e di volere». Tutto ciò accade mentre è già legge dello Stato (anche se deve ancora entrare in vigore) la 6/2004, che ha istituito la cosiddetta «amministrazione di sostegno», rendendo obiettivamente marginale l'interdizione. Con l'amministrazione di sostegno, che si avvicina alla Betreuung tedesca e alla Sachwalterschaft austriaca, la nuova legge si propone proprio di coinvolgere il soggetto disabile nelle decisioni che lo riguardano, non di sostituirsi alla sua volontà. E questo anche nei casi più gravi di disabilità, non soltanto quando si abbiano «problemi psicologici».
Nel caso di Sanremo - a meno che la realtà non sia sostanzialmente diversa da come è stata riportata, e in casi come questi la prudenza è d'obbligo - sembrerebbe sia stato trovato il modo di aggirare il principio della necessità del consenso al trattamento medico: chi non acconsente al trattamento medico sarebbe sostanzialmente matto, e quindi la sua volontà non dovrebbe valere. Quale spazio rimane all'autodeterminazione del paziente, consacrata anche dal Codice di Deontologia medica?
Di fronte a questo tipo di protagonismo giudiziario, l'autodeterminazione non si affermerebbe nemmeno nel caso in cui fosse in vigore una norma sul testamento biologico (col quale si potrebbe scrivere, per esempio: rifiuto ogni amputazione, per il caso in cui io divenissi incapace di autodeterminarmi) che fosse fatta sul modello del recentissimo documento del Comitato Nazionale di Bioetica, in base al quale le volontà del paziente non sarebbero vincolanti per il medico.
Così stando le cose, bisognerebbe dire: Signor Giudice, se basta rifiutare il trattamento medico per essere interdetti o comunque sottoposti a trattamento obbligatorio, vuol dire che il principio del consenso non vale più nulla.
L'interdizione e il trattamento sanitario obbligatori debbono essere posti in essere solo quando ne ricorrano i presupposti, mai se fossero una inammissibile scorciatoia per eludere l'autodeterminazione del paziente. Naturalmente anche noi ci auguriamo una soluzione positiva della vicenda, ma non considereremmo tale una soluzione che passasse per quella scorciatoia.