martedì 6 aprile 2004

cosa era accaduto prima

Corriere della Sera 6.4.04
IL CASO 7 APRILE / A 25 anni dalla maxi-retata che lo portò in carcere con Toni Negri e Franco Piperno, a colloquio con l’ex leader di Autonomia operaia
«I giudici avevano ragione, teorizzavamo la lotta armata»
Scalzone: Calogero sbagliò a pensare a una cupola del terrorismo. Ma un tumulto sociale spinse una forte minoranza a una sorta di guerra civile
di Giovanni Bianconi


PARIGI - «Eh già, venticinque anni... Le mie nozze d’argento con l’inizio della morte civile», dice tirando il fumo dell’ennesima sigaretta. Ma «morte civile» è un’espressione stonata in bocca a Oreste Scalzone, che in questo quarto di secolo ha continuato a parlare, scrivere e inveire. Meglio dire «le ultime ore di libertà vissute nel suo Paese», visto che allora cominciò un periodo di galera e di latitanza che dura ancora oggi, mentre è in prima fila nella battaglia contro l’estradizione del suo amico Cesare Battisti. Coincidenza curiosa: l’udienza della Corte d’appello di Parigi per decidere il destino dell’ergastolano italiano rifugiato in Francia è convocata proprio per domani, 7 aprile, data simbolo per la storia giudiziaria e politica d’Italia; quel giorno del 1979 scattò la maxi-retata contro i capi dell’Autonomia operaia accusati di associazione sovversiva, banda armata e - alcuni - di essere i veri capi delle Brigate rosse. Tra loro i principali leader del disciolto gruppo di Potere operaio: Toni Negri, Franco Piperno, Oreste Scalzone, Emilio Vesce.
Scalzone venne arrestato a Roma, nella sede della rivista Metropoli : «Dovevo scrivere una lettera sull’amnistia e un reportage sui funerali bolognesi di Barbara Azzaroni, una compagna del '68 passata a Prima Linea, uccisa in uno scontro a fuoco». Non scrisse niente perché la sera era già a Regina Coeli: «Cominciò il giro delle carceri, da Roma a Padova, poi Rebibbia, gli "speciali" di Cuneo e Palmi, Termini Imerese, poi ancora Rebibbia e Regina Coeli».
Davanti al pubblico ministero di Padova che coordinava l’inchiesta, Pietro Calogero, Scalzone cominciò a difendersi ponendo lui le domande: «Né rifiuto del giudice né difesa tecnica di fronte a chi ti accusa per quello che sei e non per ciò che hai fatto: io posso aver fatto questo, questo e questo, lei che cosa sceglie? Dopodiché tocca a lei trovare le prove, non a me dimostrare che non è vero». Allora il rivoluzionario sfidava il suo «inquisitore»; oggi, 25 anni dopo, rilegge i fatti così: «Calogero e gli altri hanno sbagliato per eccesso, ma anche per difetto. Il complotto, la cupola del terrorismo che tira le fila di tutte le sigle con Toni Negri nella parte del Grande Vecchio era una fantasma dietrologico, e dunque un eccesso. Ma l’esistenza di un tumulto sociale che noi tentavamo di organizzare, la teorizzazione della lotta armata anche se diversa da quella praticata dalle Br, compresi reati come rapine e gambizzazioni, erano tutte cose vere. Forse più diffuse e capaci di diffondersi di quanto immaginavano i magistrati». Nell’inchiesta «7 aprile», insomma, c’era del vero almeno sul piano storico, poiché esisteva «un vasto terreno di illegalità e militarizzazione che ha spinto una forte minoranza a una sorta di guerra civile a bassa intensità, ed era logico che lo Stato la contrastasse».
Il problema è - secondo il rivoluzionario di allora - che le prove portate dai magistrati (non solo a Padova, ma anche a Roma e Milano) non corrispondevano ai fatti come s’erano svolti o si potevano provare: «"Nego l’addebito ma non me ne sento diffamato" dissi allora e confermo oggi. Sono responsabile di altre azioni della stessa natura». Sarebbe a dire? «Partecipai alla prima rapina in banca nel ’72, forzandomi a non pensare che cosa ne avrebbero detto gli altri dirigenti del gruppo; lo feci perché i soldi per la rivoluzione non potevano arrivare dai salari degli operai ma andavano presi dov’erano, e per contrastare l’attrazione fatale esercitata su tanti compagni dalla clandestinità. Entrai io con un compagno, armato di pistola. Negli anni successivi partecipai altre due o tre volte. E se pure ho avuto la fortuna di non dover sparare a qualcuno, mi sento la corresponsabilità diretta soprattutto di alcuni ferimenti firmati con sigle diverse, tra il ’74 e il ’76. Per esempio un’azione sul piazzale della Marelli contro il responsabile delle guardie; il giorno dopo ci fu lo sciopero ma noi eravamo lì a dire "né una lacrima né un minuto di salario per il capo degli sbirri padronali"».
Altri tempi, in cui c’erano pure i delitti firmati dalle Br. Ma Scalzone - risulta dalle stesse inchieste giudiziarie - stava su un’altra linea: «Eravamo contro l’attacco al cuore dello Stato perché sostenevamo che lo Stato non ha cuore. Era una questione teorica, non morale: se il tiranno non è una persona ma un sistema, l’omicidio politico è oltretutto inutile. Quindi non aver ucciso non è solo fortuna, ma questo non mi attribuisce alcuna legittimità etica superiore rispetto a chi abbia ucciso. Anzi, sono consapevole che con parole e scritti posso aver evitato dei morti, ma anche averne provocati degli altri».
Mentre la giustizia italiana faceva il suo corso, il leader di Autonomia operaia scarcerato per motivi di salute («giunsi a pesare 39 chili, mi vennero un’ischemia e l’epatite») scappò all’estero: «Stava arrivando una nuova ondata di pentiti, mandai un messaggio ai compagni in prigione e organizzai l’espatrio. In Corsica mi portò Gian Maria Volonté con la sua barca. Dalla Francia, che allora estradava in un amen, giunsi in Danimarca attraverso il Belgio e l’Olanda. Solo dopo la vittoria di Mitterrand arrivai a Parigi, l’11 novembre 1981». Da allora Scalzone è un abitante della capitale francese: «A 57 anni è la città in cui ho vissuto di più nella mia vita». Qui ha subìto un arresto di 40 giorni prima che venisse negata l’estradizione e ha avuto notizia delle condanne italiane - quelle definitive arrivano a circa 12 anni di carcere - che cadranno in prescrizione alla fine di settembre. Allora potrebbe tornare in Italia da uomo libero, «ma l’esilio non mi pesa, anzi mi ha dato più di quanto mi ha tolto. E poi è proprio il rientro da libero che sono disposto a giocarmi offrendomi come ostaggio volontario».
Ora il discorso ritorna sui latitanti «rifugiati» che la Francia potrebbe estradare: «Vent’anni fa hanno moltiplicato condanne e condannati perché c’era un "crimine collettivo continuato" che metteva in pericolo la democrazia; oggi costruiscono l’identikit di un assassino trincerandosi dietro il comprensibile mancato perdono delle vittime e dei loro familiari». Sta parlando di Battisti e del nuovo «7 aprile» che vi aspetta?
«Sì. E anche dell’alibi che si sono fatti per non parlare più di amnistia. Ma il perdono serve solo per la grazia, non per la soluzione politica che spetta al Parlamento. Comunque il caso Battisti riguarda la Francia e la parola data da questo Stato, la cosiddetta dottrina Mitterrand che nemmeno la destra francese di Chirac aveva sconfessato fino all’estradizione di Paolo Persichetti. Mitterrand voleva evitare che qualche centinaio di persone gettate nella clandestinità riprendessero la lotta armata qui o da qui; rinnegarla oggi significa dire che sbagliò chi allora decise di posare le armi».