venerdì 2 aprile 2004

le scelte culturali del Corsera
perché ancora James Hillman?

Corriere della Sera 2.4.04
Il celebre psicanalista sarà oggi a Milano per partecipare al convegno organizzato da «Liberal» su educazione e istruzione
Hillman: il futuro? Si chiama matematica
di Pierluigi Panza


Scrutare da cinquant’anni i miti che sono alla base dell’inconscio collettivo non impedisce allo psicanalista James Hillman di tracciare un futuro senza un ruolo determinante per la psicologia. «Non c’è futuro senza lo studio della matematica - afferma -, e se nel mondo la cultura estetica fosse maggiormente diffusa, non ci sarebbe bisogno della psicologia». Nato nel 1926 ad Atlantic City, Hillman si è laureato al Trinity College di Dublino e ha cominciato la sua attività come terapeuta. Quindi è stato direttore del «Carl Gustav Jung Institute» di Zurigo e, nel 1960, ha pubblicato il suo primo bestseller, Emotion, con il quale ha fondato la Psicologia degli archetipi. Oggi, alle 12 e 30, sarà al Centro congressi Cariplo di Milano dove terrà l’intervento «Il numero e i suoi nemici» (ma dice che sarebbe meglio il titolo «La resistenza verso la matematica») nell’ambito del convegno «L’educazione e l’istruzione nel XXI secolo. La civiltà, la qualità, la libertà» promosso dalla fondazione «Liberal». A seguire gli interventi di numerosi docenti universitari italiani.

Professore, come mai uno studioso degli archetipi e dell’inconscio come lei elogia la matematica?
«La supremazia della cultura occidentale dipende dalla tecnologia, e questa dalla matematica. Dagli studi scientifico-matematici dipende il nostro futuro, e la disaffezione degli studenti verso queste materie è un problema serio: senza matematica non avremo futuro».
In Italia, si parla ancora di «due culture», umanistica e scientifica e, per un retaggio crociano, spesso di supremazia degli studi umanistici...
«È una vecchia idea, nata nel Rinascimento. Il problema, oggi, è la specializzazione che caratterizza l’insegnamento delle discipline scientifiche e che allontana i giovani, volgendo il loro interesse verso ideali nobili di comunità, solidarietà... In futuro, bisogna che lo studio della scienza sia connesso con questi ideali e non resti confinato. Oggi, i computer e la tecnologia governano anche la guerra e gli armamenti: per questo il sentimento dell’uomo è sempre più lontano dall’appassionarsi per gli studi scientifici. La scienza appare come una forza distruttiva. E così aumenta la disaffezione dei giovani verso le discipline matematiche».
Si può ritenere che una sorta di omologazione o globalizzazione dei metodi d’insegnamento possa favorire il superamento delle incomprensioni e dei conflitti tra le nuove generazioni?
«Noi abbiamo una scienza comune e, non si dimentichi, la nostra matematica e la nostra filosofia vengono anche dagli arabi. Ma la cultura non è omologabile. Educare significa costruire una persona, non imporre. La globalizzazione fa venir meno proprio l’individualità della persona: educare, invece, è tirar fuori da me quanto io già sono».
Che pericoli vede all’orizzonte nei nuovi metodi educativi?
«Il pericolo è che avvenga ciò che già sta iniziando negli Stati Uniti. Qui si inizia a sovrintendere l’educazione culturale, specie quella degli studi arabi, con organizzazioni semigovernative. C’è un’infiltrazione del governo nella libertà d’insegnamento. Prima, l’educazione era un sistema separato dal sistema politico, diversamente da quanto avviene in Italia e in Francia! Ora tende a servire fini politici».
Nella nostra società delle comunicazioni, nella cosiddetta «società dello spettacolo», i «media» esercitano un’influenza determinante. Avranno un ruolo strategico anche nella didattica, anche nell’apprendimento?
«Non ho nessuna fiducia nei "media", salvo che in uno: Internet. Questo è un media alternativo, o un "submedia", ed è un importante strumento di ricerca individuale. Ma l’educazione di Internet deve essere "a coté" di quella ufficiale».
Quanto a televisioni e giornali...
«Potrebbero essere importanti come strumenti, ma sono influenzati politicamente, religiosamente, ideologicamente. La parola programma, che si usa per la televisione, è molto brutta; l’arte, ad esempio, non ha programma, non è mai stata soggetta a un programma. Programma significa propaganda, perché fa parte di una struttura. I programmi sono influenzati dai governi».
Lei, in un’intervista, ha parlato di «importanza della bellezza». Quanto conterà negli studi del futuro quell’«educazione estetica» invocata da Goethe, Schiller e dall’idealismo tedesco come base per la formazione di un individuo completo?
«Sarà la più importante possibilità da sfruttare. Ho scritto ora un libro intitolato A terrible love of war (uscirà in autunno in Italia da Adelphi, ndr) in cui sostengo che dove si diffonde intensità estetica, ovvero passione come i giovani hanno per la musica e per l’arte, c’è meno attrazione per la guerra. L’intensità estetica allontana la guerra. Non a caso negli Stati Uniti gli spazi per l’educazione estetica si sono enormemente rimpiccioliti».
E per la sua psicologia che spazio ci sarà?
«Non saprei. Se la cultura estetica fosse maggiormente diffusa non ci sarebbe bisogno di psicologia. Ma il problema è che troppe persone abbandonano gli studi di matematica. Si deve tuttavia considerare che non esistono solo forme di comprensione linguistiche o matematiche del mondo, come i test universitari oggi farebbero credere. Come ha mostrato Howard Gardener in un suo celebre libro, esistono almeno sette diverse forme di intelligenza: quella logico-matematica è una sola tra queste! Per questo è necessaria una diversificazione negli studi e non un’omologazione. Ma senza che si abbandoni la matematica».
Ma come insegnarla, allora?
«La scuola deve insegnare la matematica con più immaginazione e meno autorità. Certo, la matematica ha un suo aspetto teorico che ne rende l’insegnamento per forza un po’ autoritario; e, per questo, gli studenti scappano! Io sono uno psicologo, e quindi studio i sintomi, e ritengo che questo esercizio dell’autorità faccia scappare i giovani».
E per lo studio dei miti ci sarà ancora posto nella società tecnologizzata e globalizzata?
«Il mito resterà essenziale nello studio della storia. Nella psiche e nella descrizione dei grandi eventi il mito riemerge sempre: per questo motivo si parla ancora delle Crociate; attraggono gli studi sul pianeta Marte e Omero con l’ Iliade vengono riscoperti per capire le guerre di oggi».
Professore, lei parla dei giovani, ma la società europea è sempre più vecchia. Che ruolo potranno avere gli anziani nell’indirizzare l’educazione delle future generazioni?
«Devono raccontare ai giovani chi sono stati. Non devono imporre, non devono sgridare. Devono far loro vedere come sono stati, dire: "Ecco eravamo così". Mostrare, parlare e ricordare le radici. La storia parte dalla riscoperta di come erano gli anziani che ancora ci sono. Sono il tramite verso gli studi storici».