venerdì 2 aprile 2004

Moby Dick, il bene e il male

Il Mattino 2.4.04
Moby Dick il mito della balena
«MOBY DICK», LA BALENA BIANCA
Pubblicato nel 1851, il capolavoro di Melville ha il respiro biblico
della lotta tra il bene e il male, dell’epica sacra densa di fantasmi
di Matteo Palumbo


«Call me Ishmael» («Chiamatemi Ismaele»). Sono le parole imperative, eppure con un’ombra di ambiguità, con cui inizia «Moby Dick», il romanzo-leggenda che Hermann Melville pubblicò nel 1851. Chi parla è un testimone: l’unico sopravvissuto, come apprenderanno i lettori, di una storia ordita di pazzia e, insieme, di cieco, assoluto desiderio. Fin dall’inizio, in quella perentoria richiesta di un nome da adottare, risuona, tuttavia, una nota inquietante. Chi si presenta, infatti, sembra nascondersi piuttosto che rivelarsi. Quel nome «Ismaele», che dovrebbe essere garanzia certa, funziona come un contrassegno arbitrario. Diventa solo l’espressione di un patto, sancito tra il personaggio che racconta e chi lo ascolta. L’identità certa, indubbia, mentre sembra costituirsi, in realtà si cela.
Il caso del nome è esemplare. L’impossibilità di illuminare il significato di ciò che accade diventa la caratteristica principale dell’intera storia, fino a coinvolgere la natura dei protagonisti che la compongono: la balena, naturalmente, il Moby Dick del titolo, e colui che le dà una caccia senza pietà, il comandante Achab. Tra i due contendenti, in una lotta all’ultimo respiro, non sarà possibile indicare nettamente chi sia il bene e chi sia il male, oppure dove stia la ragione e dove la violenza: entrambi ambigui, demoniaci e divini, parti di una guerra senza fine, in cui formano una paradossale, inseparabile coppia.
L’autore, quando scrisse il suo testo più famoso, aveva alla spalle molti mestieri. Era stato impiegato di banca, maestro, mozzo su una nave. Nel 1841 si era arruolato in marina, ma, arrivato nei mari del Sud, aveva disertato e aveva vissuto per qualche tempo con una tribù di cannibali. L’esperienza del mare sarebbe stata determinante. Ritornato in patria, Melville cominciò a scrivere, rielaborando i frammenti delle sue avventure. Le scorrerie sugli Oceani gli offrirono un materiale prezioso, che colmò le sue pagine e diventò la sostanza del suo mondo fantastico. In maniere diverse e con accenti differenti, ora idillici, ora, invece, cupi e tremendi, l’universo di marinai e di selvaggi sarebbe diventato lo scenario dominante delle sue opere. Nacquero testi come Typee e Omoo, Mardi e White-Jacket: un giornale di bordo, questo, apparso solo un anno prima di Moby Dick, che dimostra l’interesse non più per i primitivi e per la loro esistenza, quanto, piuttosto, per l’equipaggio di una nave, considerato un microcosmo rivelatore delle dinamiche che regolano la vita intera degli uomini.
Quando Melville affronta Moby Dick, mette precisamente al centro del suo testo la vita dell’equipaggio e il viaggio per mare: simbolo topico della vita degli uomini in mezzo agli eventi che li colpiscono. La vicenda di Moby Dick, se si può d’altra parte riassumere facilmente nelle sue linee essenziali, presenta una serie complicata di storie individuali e di aspetti eccentrici, che trasformano la forma del romanzo in un sistema composito di modalità narrative. Al racconto vero e proprio di Ismaele è premesso, per esempio, un corpus di citazioni, estratte da opere letterarie e non, che riguardano la balena, il suo nome e la sua presenza nell’immaginario umano. È il preludio di una tendenza che riapparirà più volte nel testo. Il racconto di Ismaele ingloba, infatti, capitoli di taglio scientifico e tecnico, che riguardano la natura dell’animale contro cui Achab combatte la sua tremenda battaglia. Sono sofisticati trattati di cetologia, con discussioni analitiche intorno alla classificazione di vari tipi di balena, o interventi che spiegano alcuni fenomeni marini. Tuttavia, anche in casi come questi, in cui la narrazione prende la via della disquisizione scientifica, il tema dell’opera irrompe prepotentemente. Le nozioni, esposte in una chiave tutta oggettiva e con una minuzia perfino pedante, all’improvviso si trasformano e diventano il segno di una seconda realtà, spirituale e mentale, che si nasconde dietro la nuda faccia del fenomeno. Questa potenza allegorica, d’altra parte, è il cuore del libro di Melville. Trasforma la caccia alla balena di un comandante maniaco, ossessionato da una sola idea, in un’«epica ontologica», dentro cui si gioca la partita infinita con il destino e con la morte. L’acqua - scrive Melville - «è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto».
Gli oggetti visibili sono solo «maschere di cartone», dietro le cui apparenze «qualcosa di sconosciuto sporge le sue fattezze». Moby Dick, come romanzo e come animale, è precisamente questa duplicità inscindibile di visibile e di invisibile, di materiale e di spirituale, che non si può mai del tutto sciogliere in una sicura equivalenza. Proprio in questo senso, è un’allegoria: polisemica, indeterminata, mobile. Su un ordito di avventure concrete si disegna, nello sviluppo del racconto, la trama di un’altra lotta, metafisica e spirituale, tra forze contrarie e irriducibili.
La stessa nave su cui si svolge l’intero viaggio di Achab e del suo stravagante esercito, il «Pequod», ha un aspetto doppio e allusivo. È una «nobile nave, ma in qualche modo una nave malinconica». È, forse, inevitabile che sia così, giacché «tutte le cose nobili hanno un’ombra di malinconia». Su questo battello prendono posto uomini di natura, di razza e di carattere diverso. Ci sono tre capitani in seconda: Starbuck, che si affida alla ragionevolezza e alla misura per resistere all’orrore incombente; Stubb, coraggioso e perennemente spavaldo; Flask, ostinato e fanaticamente intrepido, che ritiene le balene null’altro che «una specie di topo, o sorcio d’acqua, ingigantito». Accanto a loro, ci sono i fiocinatori che devono attaccare la Balena Bianca. Anche in questo caso, coesistono, in un modo ancora più vistoso, tipologie diverse. C’è Quiqueg, un gigantesco indigeno dei mari del Sud, con il corpo interamente rivestito di tatuaggi; c’è Tashtego, pellerossa, e Deggu, nero africano. A questi tre va ancora aggiunto il misterioso e diabolico Fedallah.
Chi, naturalmente, tra tutti emerge è Achab. Motore dell’azione, egli è la volontà suprema, che unifica i comportamenti di tutti. «È un uomo grande, non è religioso e pare un dio; non parla molto, ma quando parla potete stare ad ascoltare. Achab è fuori dal comune, è stato all'università e in mezzo ai cannibali, è abituato a cose meravigliose più profonde del mare, ha piantato la lancia in nemici più forti e più straordinari delle balene. Lui è Achab, e nell’antichità Achab era un re coronato». Come il Dio incontestato di questo mondo, vi infonde l’anima e ne sollecita gli impulsi. Porta sul suo corpo ferito il segno eterno del nemico, alla cui caccia ha ormai votato l’intera esistenza. Quella Balena Bianca, che deve essere scovata attraverso tutti i mari conosciuti e di cui bisogna intuire spostamenti e traiettorie, in una ricerca assillante ed esclusiva, è la sua ossessione: la ragione stessa dello stare al mondo. Perciò Achab non è semplicemente pazzo. Possiede una statura più grande, che lo trasforma in una specie di «ambiguo Faust» (Leslie Fiedler) proteso a infrangere tutti i limiti che gli si parano innanzi. Solo agli altri può apparire semplicemente matto. Al contrario, egli è «demoniaco». Incarnazione suprema dalla «pazzia impazzita». Per il capitano del «Pequod» la Balena Bianca è la figura di un’entità astratta. Acceso da questa furia, Achab «accumulava sulla gobba bianca della balena la somma di tutta l’ira e di tutto l’odio provati dall’intera sua razza dal tempo di Adamo».
Il romanzo di Melville assume, perciò, il respiro di un’epica sacra. Tutti i suoi lettori hanno sottolineato le corrispondenze volontarie che esso istituisce con la Bibbia, a cominciare dai nomi che accompagnano il susseguirsi dei fatti: Ismaele, ovviamente, e poi Giona, Elia, la Balena-Leviatano, per concludere naturalmente con Achab, l’empio re d’Israele, di cui i cani «leccarono il sangue». Cesare Pavese, a cui si deve una traduzione memorabile del testo di Melville, invitava a leggerlo tenendo a mente la Bibbia. Gli autori a cui Melville si richiama sono d’altra parte di per sé indicativi. Moby Dick, infatti, riecheggia Poe, riprende Hawthorne, guarda a Shakespeare.
Quando Moby Dick fu pubblicato, non ebbe nessun successo. Furono gli anni successivi a trasformare il libro in una di quelle «opere mondo» (Moretti), nel cui specchio un’intera cultura poteva trovare riflessi tutti i fantasmi, i terrori e i deliri del «lato oscuro della terra». L’uomo, per il creatore di Achab, dovrebbe assimilare le capacità della balena, restando, come il suo modello, caldo in mezzo al ghiaccio, partecipe del mondo senza appartenergli, freddo all’Equatore e con il sangue in circolazione al Polo. Ma questa aspirazione di equilibrio e di salvezza non può essere altro che un mito, astratto e irraggiungibile: «delle creature, quante poche sono grandi come le balene».