mercoledì 21 aprile 2004

Sartre: il punto di vista del manifesto...

due aticoli ricevuti da P.Cancellieri

il manifesto 21 aprile 2004
SARTRE
Atto unico contro i dominatori
«Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti», pièce teatrale scritta e rappresentata dal filosofo francese nel 1940 per i suoi compagni di prigionia nel campo di Treviri. Un testo sottratto all'oblio con la prima traduzione italiana nella collana sartriana delle edizioni Marinotti
di CLAUDIO TOGNONATO


Natale del 1940 siamo nel campo di concentramento di Treviri dove Jean-Paul Sartre è rinchiuso dopo la sua cattura a Padoux, Lorena, nel nordest della Francia. Inviato al fronte, la guerra è stata per Sartre una lunga attesa che finirà senza nemmeno sparare un colpo. Sarà fatto prigioniero il 21 giugno 1940, proprio il giorno del suo compleanno, e dopo qualche mese verrà trasferito in Germania, ma riuscirà a evadere nove mesi dopo con un falso certificato medico che fa riferimento alla cecità a un occhio, accompagnato da un contraffatto documento d'identità in cui si fa passare per civile. Dai campi di concentramento nazisti non si evade facilmente, ma il giovane Sartre, che non si limita a essere soltanto un teorico della libertà, riesce a fuggire. La fuga però, era in realtà cominciata durante la stessa prigionia dove si dedica interamente a leggere, scrivere e preparare opere come L'Essere e il Nulla o la trilogia I cammini della libertà. Organizza un seminario su Heidegger, scrive il suo diario (I taccuini della strana guerra), mantiene una copiosa corrispondenza con Simone de Beauvoir alla quale scrive: «se la guerra continuasse a questo ritmo lento e cullante, credo che al momento della pace avrei scritto tre romanzi e dodici opere filosofiche». Questo periodo di forzata «chiusura» si rivelerà, infatti, fondamentale per permettere quella offensiva esistenzialista che furono gli anni Quaranta e Cinquanta. Una articolata macchina filosofica, politica e letteraria preparata, confesserà più tardi, «per fornire una ideologia al dopoguerra». È qui, nella baracca «degli intellettuali» e a richiesta di due preti prigionieri divenuti amici, dove Sartre accetta di scrivere e rappresentare una pièce di teatro, Bariona o il figlio del tuono (Christian Marinotti Edizioni, pp. 117, € 14,50) che solo ora vede la sua prima edizione italiana.
Bariona, un atto unico in sette quadri, è ambientato all'epoca della dominazione romana sulla Giudea. Nel campo di concentramento nazista di Treviri, ai margini della stessa città che diede i natali, nel 1818, a Karl Marx, Sartre sceglie di schierarsi dalla parte degli oppressi, dalla parte degli ebrei. Bariona è il capo di un povero villaggio di montagna che per opporsi e protestare contro l'innalzamento delle tasse decide una sorta di malthusiano «sciopero della natalità»: non si faranno più figli, non ci sarà più nessuno per pagare le tasse, il paese scomparirà e gli esattori romani resteranno a mani vuote. Bariona sa che non può contrastare gli oppressori, sa che la ribellione di un piccolo paese sarebbe stata soffocata nel sangue e propone allora la lenta estinzione come forma estrema di lotta. Anche quando scopre che sua moglie è incinta Bariona non esita e cerca di convincerla che generare la vita è perpetuare la sofferenza umana. Ma ecco che a un gruppo di pastori appare un angelo che annuncia che a Betlemme è nato il Messia. L'intero paese, prima fedele al suo capo, ora gli si rivolta contro. Bariona, il figlio del tuono, rifiuta di recarsi a Betlemme e proclama la libertà dell'uomo davanti a Dio: «Quand'anche l'Eterno mi avesse mostrato il suo volto tra le nuvole io rifiuterei ugualmente di sentirlo poiché sono libero, e contro un uomo libero, Dio stesso non può nulla». A questo punto entrano in scena i Re Magi in viaggio verso Betlemme e Baldassarre (impersonato nella recita dallo stesso Sartre) si rivolge a Bariona in un lungo monologo per dirgli: «Tu soffri e pertanto il tuo dovere è di sperare (...) l'uomo è sempre molto di più di quello che è. Vedi questo uomo, tutto appesantito dalla sua carne, radicato sul luogo dai suoi due grandi piedi e tu dici, stendendo la mano per toccarlo: è là. E ciò non è vero: ovunque sia, un uomo, Bariona, è sempre altrove». Tutto il villaggio decide di mettersi in viaggio per Betlemme tranne Bariona, che partirà solo in un secondo momento e per una scorciatoia con l'idea di uccidere il Messia. Arrivato a Betlemme di nuovo si troverà di fronte Baldassarre-Sartre che in un altro monologo (tutto sartiano) lo convincerà del contrario. Baldassarre dirà che la sofferenza è umana, ma non bisogna ruminarla né rassegnarsi, conviene piuttosto «accettarla come se vi fosse dovuta ed è sconveniente parlarne troppo, foss'anche con sé stessi» (...) «tu non sei la tua sofferenza. Qualunque cosa tu faccia la superi infinitamente, poiché è proprio ciò che tu vuoi che essa sia.» La sofferenza non è più rassegnazione, ma l'accettazione della propria contingenza. Bariona si sentirà allora libero e responsabile della sua scelta. Marcerà contro i soldati di Erode, cercherà di rallentare il massacro di neonati per permettere la fuga di Gesù e morirà prima di vedere nascere suo figlio in un finale dove si coniugano la lotta contro l'oppressore e l'accettazione della vita.
Perché questo lavoro teatrale è rimasto in un secondo piano, non solo in Italia, ma in tutto il mondo? perché non è stata inserito a pieno titolo nel teatro di situazioni? perché la prima pièce di teatro scritta da Sartre è diventata l'ultima? La risposta a queste domande va forse ricercata nel carattere anomalo e perfino discordante di questa che costituisce un'avant première nel contesto della vastissima opera sartriana. Una prima risposta si trova nella lettera che precede il testo, datata 31 ottobre 1962, in cui Sartre precisa: «Se ho preso il mio soggetto nella mitologia del Cristianesimo, ciò non significa che la direzione del mio pensiero sia cambiata, fu un momento, durante la cattività. Si trattava semplicemente, d'accordo con i preti prigionieri, di trovare un soggetto che potesse realizzare, in quella sera di Natale, l'unione più vasta di cristiani e di non credenti». Questa avvertenza indica in modo esplicito una chiara presa di distanza dal testo. Si dovrà aspettare fino al 1962 perché Sartre autorizzi l'edizione di Bariona limitata di cinquecento copie fuori commercio e destinate in gran parte ai suoi compagni di prigionia; poi ce ne sarà una seconda, nel 1967, anch'essa fuori commercio. La prima pubblicazione «regolare» è riportata in appendice, a pagina 565 de Les écrits de Sartre, cronologie, bibliographie commentée (1970) di Michel Contat e Michel Ribalka.
Nella nostra (sempre più) cattolica Italia la pièce è stata prontamente recensita dal Corriere della Sera e da Famiglia Cristiana - con titoli quali «Sartre, l'ateo che decise di inchinarsi a Gesù» o «L'ateo che scoprì la Speranza» -, leggendo in questo libro ciò che più volte Sartre stesso ha esplicitamente negato. «A vedermi scrivere un mistero, alcuni avranno potuto vedere che attraversassi una crisi spirituale. No! Un medesimo rifiuto del nazismo mi legava ai preti prigionieri nel campo.» Questo è il movente che lo porta a scrivere una pièce su «un soggetto della mitologia cristiana» come dirà con evidente distacco negli anni Sessanta.
Contat e Ribalka annotano che Sartre non ha mai avuto un'opinione molto alta della sua pièce, la considerava un lavoro non riuscito, scritto in pochi giorni e in circostanze molto particolari: «la pièce non era né buona né ben rappresentata: un lavoro di dilettanti, direbbero i critici, e non è stato altro che il prodotto delle circostanze». Sono proprio le «circostanze» che portano Sartre a scrivere Bariona, dalla quale ne ricaverà un'interessante esperienza per il futuro: «attraverso le luci mi sono rivolto ai miei compagni per parlare della loro situazione di prigionieri, li ho visti all'improvviso attenti e silenziosi e mi sono reso conto di ciò che era il teatro: un grande fenomeno collettivo, religioso.» Questa prima esperienza lascerà il segno e pochi anni dopo diventerà autore di teatro. Prima ancora di L'Essere e il nulla (1943), scriverà Le Mosche (1943), e in seguito una lunga serie di pièces: Porte chiuse (1945), Morti senza sepoltura (1946), La sgualdrina timorata (1946), Il gioco è fatto (1947), Le mani sporche (1948), L'ingranaggio (1946), Il diavolo e il buon Dio (1948), Kean (1954), Nekrassov (1956), I sequestrati d'Altona (1960). Sartre confesserà (Le Parole) che il suo motto fu sempre «mai un giorno senza una riga» e il lungo elenco delle sue opere ne è una testimonianza.
E' noto come Sartre sia sempre stato molto critico con se stesso e i suoi lavori. La scarsa considerazione riservata a Bariona ne è una prova, forse eccessiva. Se quel testo fosse stato scritto nella serenità del suo appartamento parigino sarebbe stato sicuramente diverso, più rifinito e più libero, ma il bisogno, urgente e prevalente, di consegnare un messaggio di libertà ai suoi compagni di prigionia ha prevalso sulla forma e la cura del testo. Nell'introduzione italiana alla pièce Antonio Delogu indica un punto fondamentale che lega la stesura di Bariona all'insieme dell'opera sartriana, l'impegno. Impegno inteso dal filosofo francese «come una missione da vivere con la stessa onestà con cui un cristiano viveva la propria vocazione». Due diverse vocazioni, due impegni fusi nella lotta.

il manifesto 21.4.04
La ricerca di un uomo libero
Tradotto il libro di Bernard-Henry Lévy dedicato a Jean-Paul Sartre
Il secolo in salotto Secondo Lévy, l'amore per la libertà del filosofo considerato l'incarnazione dell'intellettuale impegnato, lo avrebbe spinto nelle braccia dello stalinismo
C. TO.


Pochi si meravigliavano quando in una scena della Battaglia di Algeria, di Gillo Pontecorvo, un ufficiale francese domandava: «cosa ha scritto oggi Sartre?» Erano gli anni Sessanta e Jean-Paul Sartre rappresentava il pensiero anti-istituzionale, la critica inesorabile, l'intellettuale ribelle e scomodo di cui non si poteva fare a meno. Vita e opera hanno lasciato un segno decisivo al punto che Bernard-Henry Lévy designa il ventesimo secolo come Le Siècle de Sartre (Il secolo di Sartre, tradotto da Roberto Salvatori per il Saggiatore, pp. 550, € 25), parafrasando il celebre volteriano Le Siècle de Louis XIV. Forse i secoli non hanno proprietari e non possono ridursi a un personaggio, forse Sartre, che nel 1964 ha rifiutato il Nobel per la letteratura, sarebbe stato contrario a bollare il secolo con il suo nome. Sartre resta comunque un testimone d'eccezione e la sua monumentale opera, che ha contribuito a modellare la sua epoca, continua a suscitare dibattito nei nostri giorni.
Il lavoro di Bernard-Henri Lévy (BHL per i media di oltralpe) uscito in Francia nel gennaio 2000 aveva aperto i fuochi d'artificio per celebrare il ventennale della morte di Sartre. Accompagnato da numerosi articoli in giornali e riviste che parlavano del ritorno a Sartre, della rinascita dell'impegno e del ruolo critico dell'intellettuale, l'operazione ha funzionato e BHL ha venduto migliaia di copie. Si sa che viviamo nell'impero della «razionalità» economica. In Italia l'uscita del libro si proietta invece sul centenario della nascita del filosofo francese che avverrà il prossimo anno.
BHL faceva parte di quei nouveaux philosophes che negli anni `70 hanno duramente polemizzato con lo stesso Sartre. Lévy si definisce un filosofo libertino «figlio naturale di una coppia diabolica, il fascismo e lo stalinismo». Oggi l'immagine del filosofo silenzioso, misurato e saggio non ha successo. Nella società dello spettacolo a vincere è sempre il dandy dalla risposta semplice e pronta. Già la copertina de Il secolo di Sartre nell'edizione italiana è indicativa del personaggio: al volto di Sartre in bianco e nero si sovrappone una foto a colori di BHL di qualche anno fa, quando la sua folta capigliatura era ancora nera. Anni fa il sociologo Pierre Bourdieu aveva sentenziato un lavoro di BHL sull'Algeria «l'antitesi assoluta di ciò che definisce un intellettuale». Ma sarebbe ingiusto dire che Lévy è solo questo. L'autore de Il secolo di Sartre è anche uno scrittore con alle spalle più di 30 opere e un impegno permanente nella difesa dei diritti umani degli oppressi, dalla creazione nel 1980 di «Action International contre la Faim» a quella di «Sos Racisme» nel 1984.
L'edizione francese del libro ha per sottotitolo «una ricerca filosofica» da cui si deduce che non si tratta semplicemente di una biografia, invece nell'edizione italiana il sottotitolo non è più quello ma semplicemente «l'uomo, il pensiero, l'impegno». In realtà Il secolo di Sartre è il tentativo di descrivere, attraverso il racconto di una vita, come la posizione filosofica e politica dell'autore di L'Essere e il Nulla si sia negli anni trasformata. Sartre stesso confessa nelle ultime pagine delle Parole di voler indagare la ragione che l'ha indotto a pensare sistematicamente contro se stesso, al punto di misurare l'attendibilità di un'idea in base al dispiacere che essa gli procurava. La concordanza, il restare fedele a quanto era stato scritto non erano per Sartre valori da rispettare. Spesso ci si chiede a quale Sartre si fa riferimento o qual è quello vero e la risposta non è facile. Le sue opere si costruiscono una sopra l'altra, si sovrappongono e perfino si contraddicono. Si potrebbe dire con Sartre che nel campo dell'umano «il superamento conserva il superato», che ogni affermazione ha dietro di sé una negazione che la sostiene e la giustifica, che il pensiero solo può esistere come mutamento in atto, come pensiero vissuto.
In questo fluire BHL individua due periodi, o meglio due Sarte e si chiede perché «quel uomo libero, il ribelle, il personaggio scintillante... volti le spalle a ciò che costituiva il suo momento di grazia e diventi il grande traviato, complice dei peggiori stalinisti». Secondo Lévy, Sartre «non dice: c'è un evento, ed ecco quale, che ha fatto di me un antidemocratico e una carogna».
Il punto di svolta, spiega BHL, si è prodotto durante la guerra e più precisamente si è cristallizzato in Bariona, la pièce scritta per essere rappresentata nel campo di concentramento durante il Natale, essa «è il luogo in cui, non soltanto si realizza, ma si esprime e si esplicita, tutto il senso della sua conversione.»
In un'intervista concessa a Michel Contat nel 1975 Sartre spiega in che consiste questa «conversione» che ha diviso la sua vita in due: «È in guerra, se vogliamo, che sono passato dall'individualismo e dall'individuo puro di prima della guerra al sociale, al socialismo. È questa la vera svolta della mia vita». Sartre tra i compagni di prigionia si sente sperduto nella massa, partecipa alla vita comunitaria e impara la solidarietà. Con gli anni queste percezioni si consolideranno in un nuovo punto di vista che dalla libertà quasi metafisica si sommergerà nel mondo. Sartre capisce che la libertà, per essere tale, dev'essere sociale.
Quello che per il libertino BHL fa di Sartre «un antidemocratico» è il modo in cui Sartre intende l'impegno, come se la priorità del sociale sull'individuo annullasse la persona.