mercoledì 7 aprile 2004

un caso
depressione e farmaci

Corriere della Sera 7.4.04
Pochi giorni prima di morire, il racconto di un calvario lungo 29 anni: dall’angoscia della solitudine ai tentativi di suicidio
«Io, in bilico tra amore e depressione»
L’ultima intervista di Gabriella Ferri a «Oggi». «Tutto cominciò con micidiali cocktail di farmaci»
«Mi chiudevo a chiave in camera, nulla mi apparteneva più, il mio corpo stesso mi era diventato estraneo»


La depressione e l’amore, i farmaci stordenti e la speranza, la solitudine e la voglia di vivere. Nell’ultima intervista concessa pochi giorni fa a Oggi - pubblicata nel numero in edicola -, Gabriella Ferri aveva ricostruito tutta la sua lotta per vivere, descrivendo un lungo calvario di terapie e di sogni. Partendo dal legame con il marito Seva, «senza il quale non avrei mai risalito la china». «Per un certo periodo - ricorda la cantante morta sabato precipitando dal balcone della sua abitazione nel Viterbese -, quando ancora abitavo a Campo de' Fiori, più di dieci anni fa, subivo ogni giorno la visita di un neurologo che mi prescriveva cocktail micidiali, fatti anche di dieci farmaci tutti insieme. Bombe, per il mio corpo che continuava a perdere forza, ammucchiando grasso inutile e polverizzando il mio amor proprio. Davanti allo specchio, ogni volta, mi ritrovavo un'immagine sempre più debordante e avvilente. Come un animale braccato, mi chiudevo a chiave con la doppia mandata, dentro la mia camera da letto, che trasformavo nella cella di una prigione. Tenevo le persiane sigillate, in pieno giorno. Dormivo? Nemmeno. Al buio, con gli occhi sbarrati, rimanevo immobile sotto le coperte, per una quantità di ore infinita, di cui non avevo più nozione. Mi sentivo una lattuga lessa dentro il letto, non mi lavavo. Aiutato dalla donna di servizio, ogni tanto mio marito mi ficcava dentro la vasca da bagno e mi insaponava, poi mi risciacquava col getto gelato della doccia. Ma non reagivo nemmeno a quel freddo. Osservavo la mia pelle d'oca, come non fosse la mia. Nulla mi apparteneva più, il mio corpo stesso mi era diventato estraneo».
E’ una descrizione spietata, un lungo viaggio nell’angoscia. «La prima crisi grave l'ho avuta nel 1975, quando mio padre Vittorio è morto, ucciso da un cancro ai polmoni, dopo una lunga degenza all'ospedale San Camillo, dove lo avevano isolato nel reparto dei condannati. Ma lui non si rassegnava a morire e mi gridava: "Gabriella, salvami! Gabriella, comprami la vita, tu che puoi!". Quelle parole avevano su di me un effetto spaventoso. Mi caricavo di una responsabilità disumana. Dovevo salvare mio padre, con ogni mezzo. Perché potesse essere operato in una costosa clinica privata, mi massacravo con le tournée, racimolando i soldi necessari all'intervento, che fu inutile».
Ed ecco il primo tentativo di uccidersi: «Nel giugno del 1975, ero già sposata da cinque anni e mamma di Seva junior, da due. Questo, in un momento di sconforto, non m'impedì di tentare il suicidio, tagliandomi le vene. Persi cinque litri di sangue, ero in pieno choc emorragico, quando mio marito mi salvò, portandomi di corsa all'ospedale, dove diedero fondo a tutto il sangue che avevano, facendomi due tempestive trasfusioni. Lo stesso mio marito che, dieci anni fa, mi salvò anche dal John Hopkins Institute di Baltimora, la clinica specializzata nella cura delle malattie nervose. Lì, infermieri più crudeli di aguzzini, mi rifiutavano le pillole per dormire. Esasperata da quell'insonnia prolungata, presi a pugni una caposala, prima che Seva mi portasse via. Ma quella fuga non servì. Ci furono altri ricoveri, altre fughe, altri inutili tentativi di capire il perché di questo mio male... Sono stata spesso in condizioni gravi, fino a un paio di anni fa, quando ho conosciuto uno psichiatra che, anziché prescrivermi nuovi medicinali, mi ha fatto parlare per tre ore di seguito, senza mai interrompermi».
Il racconto di Gabriella a Oggi si chiude con un sorriso, quello della sua nipotina. E il terrore di non riuscire a farcela davanti alla prossima crisi: «Lo vedo ancora, una volta alla settimana. Quel medico mi trasmette tanta calma. Anche se, per vincere l'ansia, qualche goccia la prendo ancora, appena sveglia. Quello è il momento più duro. Mi capita di pensare che non ce la farò, che ricadrò nell'inferno da cui sono uscita. Mi aiutano lo sguardo di mio marito, il pensiero dei miei quattro nipotini. L'ultima, Xenia, bionda come la sua nonna, ha un anno e mezzo e ride con le fossette, bella come un angelo».