Corriere della Sera 15.7.04
CLASSICI
Pubblicati gli aforismi del celebre scrittore praghese, dai quali emerge l’idea di una «teologia senza Dio»
Kafka, un genio condannato al paradiso
UOMO E DESTINO
di Paola Capriolo
Tra i manoscritti di Kafka vi è una serie di foglietti numerati ciascuno dei quali reca un breve testo compatto, a volte costituito da una sola frase. Si tratta quasi sempre di brani trascritti dai quaderni su cui egli soleva annotare pensieri, abbozzi narrativi, piccoli episodi della vita, e risalenti al periodo trascorso a casa della sorella Ottla nel villaggio di Zürau, fra l’autunno del 1917 e l’aprile del 1918; ma ora, strappati alla fluida concatenazione dei quaderni, acquistano una sorta di evidenza scultorea: spiccano isolati e potenti nel bianco dei fogli, come parole scandite in un silenzio totale. Dobbiamo dunque essere grati a Roberto Calasso per averci restituito in questa forma, che l’autore doveva considerare definitiva, i cosiddetti Aforismi di Zürau , offrendone una nuova traduzione e accompagnandoli con un saggio tratto dal suo libro su Kafka.
Nella loro concisione questi frammenti pongono dinanzi al lettore prospettive di abissale profondità, paragonabili soltanto a quelle dischiuse dal Castello del quale, pur precedendolo di alcuni anni, essi costituiscono forse l’unico commento adeguato. Come recita il titolo con cui Max Brod li pubblicò per la prima volta nel 1953, sono «considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via»; sono più esattamente, secondo la definizione di Calasso, la massima approssimazione consentita a quella teologia che Kafka si guarda sempre dal formulare in termini espliciti, ma che costituisce il centro segreto e irraggiungibile intorno al quale gravita tutta la sua opera. Una teologia senza Dio, che non si aggrappa né alle «declinanti» forze del cristianesimo né all’«ultimo lembo del mantello da preghiera ebraico», eppure conduce in un certo senso agli estremi risultati quella grande corrente della mistica neoplatonica che ha nutrito come una linfa entrambe le religioni.
Il presupposto è un monismo assoluto, parmenideo: esiste soltanto un mondo, quello «spirituale», o, come egli afferma altrove, esiste soltanto l’«Uno», rispetto al quale ogni cosa non è che un involucro. Tutto ciò che è fuori di questa unità appartiene necessariamente alla sfera del male e dell’errore, e in primo luogo vi appartiene la conoscenza: la verità infatti, in quanto indivisibile, «non può riconoscere se stessa; chi vuole riconoscerla deve essere menzogna». Le conseguenze che ne derivano sono tra le più paradossali, ma seguono una logica inesorabile, e foglio dopo foglio Kafka le trae sino in fondo, dissimulando sotto lo splendore aforistico il rigore quasi sistematico delle sue deduzioni.
Come nel romanzo futuro qualcuno dichiarerà allo sconcertato agrimensore che non esiste alcuna differenza tra Castello e villaggio, così Kafka ci svela qui la nascosta identità del mondo con il «paradiso»: un paradiso nel quale dimoriamo eternamente, ma senza saperlo, poiché già il più tenue bagliore di coscienza basterebbe ad escludercene. L’essere, o la «sconsolata» dimensione del bene, è dunque una beatitudine priva di qualunque soggetto che possa averne esperienza, mentre la nostra felicità, l’unica consentita, sarebbe «credere all’indistruttibile in noi e non aspirare a raggiungerlo». Nel frattempo siamo condannati a vivere in una «falsa credenza» che si fa salda e compatta intorno a noi assumendo la forma di un mondo: basterebbe che l'inganno fosse distrutto perché potessimo scorgere il vero mondo al quale apparteniamo, ma «se l'inganno venisse distrutto non ti sarebbe concesso guardare o diventeresti colonna di sale», e della verità non ci sarà dato di cogliere nulla salvo il rapido guizzare di un riflesso sul nostro volto, quando abbagliati arretriamo con una smorfia.
Se la conoscenza è menzogna, tanto più lo sarà la parola: strana maledizione per uno scrittore, dover diffidare così radicalmente del proprio mezzo espressivo. Ma il nostro linguaggio, afferma Kafka, «tratta solo del possesso e dei suoi rapporti», perciò non può essere applicato se non allusivamente a ciò che sta fuori del mondo sensibile. Come scrive altrove, «il cielo è muto, risonanza soltanto a chi è muto», e forse proprio per questo egli ha sentito la necessità di immergere nel silenzio di una pagina bianca ognuno degli scabri, disperati articoli in cui si sviluppa la sua professione di fede.
Il libro di F. Kafka, «Aforismi di Zürau», Adelphi, p. 144, 8,50
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