mercoledì 7 luglio 2004

prima erano le «nevrosi di guerra» adesso sono i «disturbi post-traumatici da stress»
o, meglio, i DPTS...

Yahoo! Salute 7.7.04
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Guerre e disturbi post-traumatici
Il Pensiero Scientifico Editore


Il New England Journal of Medicine si occupa diffusamente del problema e del costo dei disturbi post-traumatici da stress (DPTS) associati alle più recenti campagne militari statunitensi, in particolare nelle missioni Iraqi Freedom e Operation Enduring Freedom in Afghanistan. Lo fa con un lavoro di Hoge, Castro e Messer sui rapporti tra il dovere di combattere e l’insorgere di problemi psichici nei soldati e con una più ampia riflessione sullo stesso tema, affidata ad un editoriale di Matthew J. Friedman.
I dati, ancorché preliminari, sono molto interessanti e assolutamente senza precedenti, anche se – avverte Friedman in apertura – è possibile sottostimino ancora l’effettiva incidenza clinica dei disturbi post-traumatici da stress tra le truppe di ritorno dai teatri operativi. Sì, perché di questo si tratta: lo stesso concetto di nevrosi di guerra, negli anni 1980 ancora limitato a ben definite situazioni di "combattimento", si è modificato ampliando i suoi confini in conseguenza del crescente impiego delle forze armate in missioni di "peace-keeping". Anche se in effetti l’impiego in combattimento aumenta ovviamente il carico di stress e di conseguenza l’incidenza di questi che sono i disturbi di maggior riscontro tra chi rientra dalle missioni attuali.
Per la prima volta si tenta di valutare la prevalenza di disturbi psichiatrici riconducibili ad una campagna in corso. In secondo luogo, i dati possono esser confrontati con quelli raccolti prima del dispiegamento delle truppe nei teatri di guerra. Un terzo aspetto che emerge subito dall’analisi è che lo stigma impedisce a molti veterani di ricorrere alle strutture assistenziali psichiatriche, anche se riconoscono la gravità dei propri problemi.
Friedman si ricollega ovviamente ai precedenti più noti, in particolare allo studio epidemiologico sui veterani della guerra in Vietnam, condotto verso la metà degli anni Ottanta; su militari, quindi, rientrati già da 10-20 anni dalla guerra. In quell’occasione, la percentuale di disturbi post-traumatici da stress fu del 15 per cento tra i soldati maschi e dell’8 per cento tra le donne.In seguito, uno studio retrospettivo di coorte su veterani della guerra del Golfo, condotto tra il ’95 ed il ’97, mostrò una prevalenza del 10,1 per cento tra chi aveva combattuto, contro un 4,2 per cento tra i non combattenti. Tuttavia, la percentuale degli affetti da disturbi post-traumatici da stress dopo la guerra del Golfo praticamente raddoppiava quando i soggetti sono stati ricontattati due anni dopo il rientro. I dati sono simili a quelli riscontrati sulle truppe rientrate dalla Somalia tra il 1992 ed il ’94, in quell’occasione senza differenze sostanziali tra i sessi.
Ovviamente, non si può ancora sapere se nel tempo la percentuale dei colpiti da disturbi post-traumatici da stress dopo le guerre attualmente in corso aumenterà o calerà. Le strutture di sostegno e cura attuali sono più adeguate di un tempo e ciò dovrebbe favorire il ricorso alle stesse da parte dei militari in difficoltà. Friedman ha ragione di temere tuttavia che la percentuale attuale, già alta (compresa tra il 15,6 ed il 17,1) tra i veterani delle guerre in Iraq ed Afghanistan potrà salire, per due motivi: primo, perché si sa ormai che nei due anni successivi al rientro la prevalenza è destinata a crescere, e in secondo luogo perché la missione si è di fatto incrudelita nel tempo, trasformandosi da un’attività di attacco breve e poi di peace keeping, in una guerra a oltranza, con disagi psichici crescenti per le truppe combattenti. Per cui i dati di Hoge et al. sono da considerarsi molto prudenti.
Un vantaggio per i veterani consisterà certamente nel fatto che, oggi come oggi, chi torna dall’Iraq e dall’Afghanistan non viene accolto con la diffidenza che incontravano invece i reduci dal Vietnam; Friedman ritiene che gli americani sappiano distinguere bene tra guerra e guerrieri e che anche chi osteggia la prima, ha motivi di gratitudine verso i secondi, pur persistendo il problema dello stigma ed un elemento psicologico non sottovalutabile, come la vergogna del militare che non vuole "soccombere" allo stress e quindi lo denega, invece che cercare aiuto e conforto nelle strutture appropriate.
Le terapie che si stanno dimostrando più efficaci sono quella cognitiva-comportamentale e quella farmacologica, in particolare grazie a due inibitori del reuptake della serotonina approvati dalla Food and Drug administration statunitense. È triste notare comunque che anche le maggiori riviste mediche internazionali debbano dedicare sempre più spazio a problemi di salute legati alle guerre in corso.

Fonti: Hoge CW, Castro CA, Messer SC, et al. Combat duty in Iraq and Afghanistan, mental health problems, and barriers to care. N Engl J Med 2004;351:13-22.
Friedman MJ. Acknowledging the psychiatric cost of war. N Engl J Med 2004;351:75-77.