Repubblica 4.7.04
Se il cinema è filosofia
dialogo tra Umberto Eco ed Enrico Ghezzi
ECO: "ma non voglio stare dietro l'obiettivo"
ghezzi:"perché non vedi una materia che esiste già"
Il cinéphile e il semiologo al Festival di Procida
La macchina da presa? È una protesi del corpo
di ANTONIO GNOLI
PROCIDA. Pensare il cinema? La questione messa così ha un´aria intimidatoria. Non siamo abituati a declinare insieme cinema e pensiero. Se mai a unire cinema e piacere, cinema ed erotismo, cinema e avventura o al massimo cinema ed estetica. Amare il cinema (o magari odiarlo), gustarlo come una pietanza, toccarlo con gli occhi è questo che di norma facciamo accomodandoci nel buio di una sala. Chi pensa il cinema o chi è pensato dal cinema? A prima vista sembra un equivoco, forse un´ossessione. Ed è quella ci pare che attraversa la testa, il corpo, lo sguardo di Enrico Ghezzi. Fautore di questo interessante festival che si tiene in questi giorni a Procida con tanto di filosofi annessi. Il vento del cinema, è il titolo della manifestazione, dopo un´interruzione di qualche anno (qualcuno ricorderà l´ottima edizione che si tenne a Lipari nel 2001) ha ripreso a soffiare. Una cinquantina gli ospiti: fra i registi presenti con le loro opere Kiarostami, Emmer, Abel Ferrara, Maresco, Straub, Bela Tarr, De Oliveira. Tra i filosofi: Agamben, Bodei, Curi, Giorello, Rovatti, Severino.
Dunque il pensiero come gesto filosofico più che essere respinto dal cinema ne sarebbe attratto al punto da perdersi nella luce, nel movimento di un´immagine, di un suono o di un´ombra ricompresi in un fotogramma. Ma se il cinema in un certo senso, non privo di qualche vistosa forzatura, è filosofia, quest´ultima non può esaurirsi nella somma dei film che hanno fatto la storia. Ovviamente registi considerati naturalmente più filosofici ci sono: Antonioni, Bergman, Rossellini (che è poi un caso a sé) Godard, Kieslowski, Wenders. I loro pensieri prendono corpo attraverso l´occhio della camera.
Ma ho l´impressione che la sola filosofia che il cinema possa realizzare sia quella involontaria che il mondo dell´opinione a volte inavvertitamente riesce a produrre. Più dei nomi citati vengono allora alla mente certe sequenze di Stan Laurel e Oliver Hardy, pochi fotogrammi di Buster Keaton, alcune indimenticabili scene di Hitchcock. Come dire la filosofia si posa dove meno te lo aspetti.
E in fondo non ci aspettavamo questo dialogo fitto e fisso tra uno scrittore di immenso successo come Umberto Eco e Enrico Ghezzi il cui successo è un lavoro ai margini più che nella centralità delle cose. Oggetto di questo filmato in cui il semiologo si «confessa» davanti a una camera fissa è il cinema. La voce fuori campo fa domande, a volte riflette a volte incalza o divaga. C´è una penombra linguistica che avvolge le domande e le rende volutamente sfuggenti. E´ il modo di interrogare che Ghezzi sembra involontariamente prediligere. Eco sta al gioco. Viene da pensare che un´illuminista come lui si serva della ragione come esperienza totalizzante: anche la cosa più astrusa può essere inglobata o neutralizzata.
Il dialogo dura più di due ore. Poche le pause: ogni tanto Eco con un lungo accendino attizza una sigaretta. In un paio di occasioni perdono il filo delle domande o delle risposte: «Che stavo dicendo?», pausa, vuoto, il ritmo scende di tono. E´ un modo di ricominciare. Eco ricorda la sua infanzia al cinema: due o tre film al giorno gratis. Una festa per gli occhi del ragazzo di Alessandria: «La mia attività di scrittore e perfino di saggista sono state più influenzate dalle grammatiche del cinema che non dalla letteratura. Scrivo pensando al montaggio cinematografico».
Viene in mente Kafka, irraggiungibile scrittura cinematografica, munita perfino di dissolvenza. Eco fa il nome di John Ford: «Ho imparato più da Ombre rosse che da molta letteratura. Il primo a descrivere il meccanismo di Ombre rosse è stato Aristotele nella sua "poetica"».
In fondo Eco e Ghezzi malgrado l´incolmabile distanza sono convinti che il cinema esiste prescindendo dal cinema. Un´assurdità? Mica tanto. Osserva ancora Eco: «Credo esista una macchinetta nella nostra testa che ci fa pensare cinematograficamente ancor prima della nascita dei fratelli Lumière».
Eco insomma immagina il cinema come una protesi. Lo vede come un supplemento del corpo. Un obiettivo, un cervello, un movimento equivalgono a una testa a due occhi, alle gambe per muoversi: su, giù, avanti, dietro, destra, sinistra. Sono universali linguistici utilizzabili tanto dal corpo quanto dalla camera. Ecco perché Aristotele, o magari Manzoni, potevano pensare o raccontare cinematograficamente prima dell´invenzione del cinema. Entrambi basavano le loro descrizioni sui meccanismi corporali. Dunque il cinema cade nel nostro orizzonte. Non se ne può prescindere, ma lo si può dosare.
«Io, dice Eco, sono grandemente influenzato dal cinema. Ma tu Enrico che mi chiedi perché non faccio cinema, sei come quell´omosessuale che cerca di spiegare a un etero come sono attraenti i maschietti. Non ti rendi conto che fare cinema non mi interessa. Sono un consumatore di cinema, ma non potrei fare il regista. Se non altro perché odio i tempi morti. Se stai sul set e chiedi di avere un elefante devi aspettare come minimo otto ore perché te lo portino. Sono troppo ansioso per poter aspettare». E poi, aggiunge in un´altra parte del dialogo: «Non voglio guardare il mondo attraverso l´obiettivo. E´ il culto che io ho della mia memoria a far sì che non ci sia qualcos´altro a registrare quello che accade fuori di me».
«La tua», replica Ghezzi, «mi pare una reazione sentimentale. Un desiderio di vedere nei film degli oggetti che entrino nella memoria. Ma poi c´è il rifiuto di vedere come funziona questa macchina».
«Ma io», osserva Eco, «sto spiegando le ragioni autobiografiche del mio rapporto con il cinema. Mi sarebbe piaciuto essere un grande pianista, ma non lo sono».
«Non è questo il punto», incalza Ghezzi, «ti sto chiedendo della macchina...».
«Ma il discorso è nato dal perché non ho sentito il bisogno di sfruttare questa macchina che per te è tutta la tua vita» controbatte Eco.
«Per niente. Tutta la mia vita non è neanche un film. Mi domando», si chiede Ghezzi, «perché non senti o fingi di non sentire una provocazione un po´ più intensa. Sono stupito per come il cinema sia per te non una situazione ma una macchina per produrre un certo tipo di spettacolo».
In fondo il confronto è tra uno che guarda il cinema dal di fuori e l´altro che lo osserva dal di dentro che se ne è lasciato risucchiare fino a confondersi e a perdersi in esso. Eco è uno spettatore, Ghezzi un singolare metafisico alla ricerca di ontologia opalescente e ottusa. Cita Kubrick che cerca di ridurre al massimo la casualità del set, ma poi deve fare i conti con il visibile delle cose: «Non può esimersi dal trovarsi di fronte a una materia che preesiste, che è lì da "sempre". Qualcosa che anche Warhol aveva presente».
«Ma se Warhol invece di puntare la macchina fissa sull´Empire State Bulding la puntava sulla stazione di Milano, l´effetto sarebbe stato lo stesso?», si chiede Eco. «Ho l´impressione», prosegue il semiologo, «che prima che la camera intervenga ci sia una messa in scena, una disposizione dell´ambiente. Non è vero che un regista prende la montagna più immobile e la filma. Non credo all´ottusità che sta fuori e il regista che sceglie di filmarla. Nel momento in cui sceglie nella realtà, questa non è più ottusa».
«Ma non vedi», dice Ghezzi, «nel cinema quello che i futuristi russi chiamavano "fattografia", non vedi una vicinanza più beata e terribile a questo esserci già? Proprio perché il cinema è immagine ripetuta, esso lavora a un esserci già. Il cinema astrattizza il reale. E´ una specie di kantiana sintesi apriori».
«Ho l´impressione», replica Eco, «che la presenza del dato reale di partenza sia meno importante della preparazione della scelta del dato».
La datità ineliminabile, bruta, basica, è a quella che sembra pensare Ghezzi, e che intuiva Hitchcock quando diceva che gli attori erano bestiame. Il cinema ghezziano è il common ground. Il cinema di Eco è il senso comune dello spettatore, è diversamente da ciò che accade con il teatro, la comunicazione che si dirige verso un pubblico indistinto.
Spiega Eco: «Distinguerei tra comunicazione di massa e comunicazione faccia a faccia. La prima, come il cinema, parte da una fonte e non sa quanti e quali tipi di destinatari saprà raggiungere. Quello che è fondamentale, poniamo nel teatro, è che ad ogni parola che pronunci, o gesto che fai, senti la reazione della sala. Tutto quello che un attore di cinema non può sentire e che è avvertito da un attore di teatro».
Questa conversazione che solo in parte abbiamo restituito nasce dall´ultimo romanzo di Umberto Eco: La misteriosa fiamma della regina Loana (Bompiani) che molto deve al cinema. La parola "deve" può far pensare a una imposizione, ma nulla è imposto o si impone se non l´evidenza delle cose che è anche il loro mistero, per dirla in conclusione con un bell´intervento che sull´argomento cinema ha fatto proprio ieri il filosofo Emanuele Severino..
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
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