venerdì 24 settembre 2004

anche l'Unità è interessata al Galimberti - pensiero
un'intervista di Roberto Cotroneo...

un articolo ricevuto da Paolo Tombolesi

l'Unità - mercoledì 22 settembre 2004

Umberto Galimberti:
«Averci rubato il futuro ecco il vero terrorismo»
intervista di Roberto Cotroneo

L’occidente e la guerra, l'occidente e l'angoscia. L'ansia e la paura: la paura della guerra, la paura del terrorismo. Non riesci a evitarla, non puoi nasconderti. Tutto ti arriva comunque addosso. Quelli che possiedono un telefonino, e si abbonano a uno dei tanti servizi per ricevere via Sms le notizie più importanti del giorno, ne sanno qualcosa. La mattina ti svegli con il messaggino, che un tempo era sinonimo di gioco, di corteggiamento, di scambio di impressioni, e adesso invece ti informo di una bomba a Kirkuk, e poi di una nel triangolo sunnita, di dieci rapiti curdi, e di una esecuzione diffusa per video. La guerra globale è combattuta altrove ma ti arriva addosso da ogni direzione, contaminando oggetti quotidiani che non ne dovrebbero essere sfiorati. La prima di queste interviste, quella con lo psicoterapeuta infantile Massimo Ammaniti, cercava di capire cosa accade attraverso una lettura della psicologia infantile fatta per gli adulti. Che vuol dire, in pratica: se di fronte a questi eventi siamo tutti impreparati, cominciamo da zero, possiamo dire che di fronte a questi eventi siamo tutti bambini. Adesso giriamo molte domande a Umberto Galimberti. Che è una figura di confine, tra la psicoterapia, che pratica come analista junghiano, e la filosofia, che insegna all'università di Venezia. Senza contare che da anni tiene una rubrica giornalistica molto seguita di dialogo con i lettori. Galimberti, partiamo dalla paura del futuro. Che è un elemento nuovo e dirompente oggi.
«La dimensione ottimistica della storia ha radici biblico-cristiane. Nel senso che questa cultura ha pensato sempre il passato come male, il presente come redenzione, e il futuro come salvezza. E questo ottimismo teologico è durato sostanzialmente fino all'inizio del Settecento. Poi in epoca illuministica, quando il mondo si è laicizzato, questa tradizione ottimistica è passata nella scienza, nell'utopia, e nel positivismo. L'utopia sogna un mondo migliore...».
Che è dunque raggiungibile. Anche la rivoluzione sogna un mondo migliore.
«Certo, e la scienza crede nel progresso. Nella prima metà del Novecento questa dimensione ottimistica, che è solo giudaico-cristiana, comincia a perdersi. La rivoluzione non ha più una controparte, le utopie si dimenticano. E l'idea di una scienza positiva si fa sempre più problematica. Eppure questa idea teleologica,finalistica, della storia prosegue ancora per tutto il nostro dopoguerra. Fino al 1989». L'anno del crollo del mondo comunista, della fine dei due blocchi? «Sì. E con la fine del comunismo c'è la completa vittoria del capitalismo. Che potremmo definire una struttura secondo natura, ovvero che mette tra parentesi la cultura». Spiegati meglio. «La storia dell'umanità è un tentativo di correggere continuamente la naturalità dell'aggressione di un uomo sull'altro: homo homini lupus. Per natura devo sopprimere il prossimo. Perché l'uomo non è portato alla convivenza o alla pacificazione. A queste cose non ci si arriva per natura, ci si arriva per cultura».
E quindi?
«E quindi il capitalismo non fa altro che ricalcare la natura originaria dell'uomo, la sua natura senz'anima. Rimasto egemone il capitalismo e non avendo contraltari, tutto diventa mercato mondiale, e il mercato - lo sappiamo tutti - è la forma elegante del brigantaggio».
Immagino le reazioni di tutti i devoti del capitalismo a queste tue parole. La forma elegante del brigantaggio...
«Peccato che non lo dica io, ma lo dice Max Weber, che non era certo un comunista».
Allora siamo nell'era del più squisito brigantaggio.
«Chi ha può avere sempre di più e chi non ha è costretto a subire. Come se noi occidentali avessimo detto al resto del mondo: dateci quel che ci serve, perché se non ce lo date veniamo a prendercelo. E questo è un vissuto sotterraneo che noi tutti viviamo».
Senza averne coscienza fino in fondo.
«L'Ocse dice una cosa chiara. Noi occidentali siamo il 17% dell'umanità. È una colpa metafisica. Il filosofo Karl Jaspers la chiamò così, quando nel 1946 andò a Berlino a dire: la colpa è di noi tutti perché siamo sopravvissuti. I sopravvissuti si sentono in colpa per quelli che sono morti, i privilegiati hanno un po' di colpe rispetto agli svantaggiati della terra».
Questo è il primo aspetto. Quello della disparità. Poi c'è il secondo, che è culturale. Per la prima volta ci troviamo di fronte a qualcosa che non comprendiamo.
«Sono convinto che noi occidentali, anche se per duecento anni abbiamo fatto dell'antropologia culturale, anche se per quasi due millenni abbiamo cercato di elaborare il principio cristiano dell'altruismo e della carità, siamo rimasti rigorosamente etnocentrici. E intendo dire che non capiamo che chi non ha avuto uno sviluppo di massa del linguaggio, chi non ha avuto un'articolazione dello psichico, come abbiamo avuto noi occidentali, non ha parole, ma ha gesti. E noi non comprendiamo chi si esprime con dei gesti».
C'è un problema di comunicazione?
«Voglio dire che noi sono duemila anni che ci stiamo abituando alla parola, al logos, e chiamiamo terrorismo e violenza una qualità di linguaggio che noi non comprendiamo. Come nelle famiglie: dove non c'è una evoluzione culturale ci si picchia».
Così il terrorismo è una messa in scena del gesto, perché mancano le parole. E i terroristi sono tali perché non hanno strumenti culturali adeguati ai nostri.
«Quando Adriano Sofri distingue tra il suicidio, e il suicidio che diventa eccidio, dimentica una cosa. Noi occidentali possiamo suicidarci senza compiere eccidi, è vero. Ma questo avviene perché noi abbiamo le parole. E chi non ha le parole fa degli eccidi. Fa dei gesti».
Vuoi dire che in quel mondo lì, nel mondo islamico, non ci sono le parole? L'Islam ha avuto delle vette di civiltà e di intelligenza altissime.
«Ma non si è diffusa. A loro è accaduto qualcosa di analogo al nostro Rinascimento, dove c'erano cento intellettuali e poi il mondo viveva in ben altro modo».
Il gesto spiega la follia del kamikaze?
«Se io decido di morire, e sono nell'abisso della disperazione faccio come Sansone: muoia Sansone con tutti i filistei. La mia morte deve coincidere con la morte della totalità. Perché devo morire solo?».
Ma il terrorismo è sempre stato fatto da gente che cercava di far morire gli altri. Adesso non è più così.
«Perché siamo arrivati all'insignificanza dell'esistenza. Un morbo che non contagia solo gli altri, i paesi del Terzo Mondo, i paesi più poveri dove non c'è nessuna qualità della vita. C'è una continuità tra l'insignificanza della loro vita disperata e la nostra insignificanza, tutta occidentale».
Quale continuità?
«In occidente si è trattati come cose, siamo numeri. Ogni volta che io sono ridotto a cosa, sono in grado di trattare gli altri come cose, come numeri, e questa è la condizione necessaria, quella di base, per poter andare in guerra e ammazzare la gente».
L'eccidio, l'orrore di Beslan come è possibile? Sembra persino immorale dargli una spiegazione razionale. Inserirla in qualunque contesto che non sia il puro orrore.
«È possibile invece: e se la mia vita non conta niente, se non c'è più futuro, tutto questo può accadere».
Anche uccidere i bambini?
«Il bambino è solamente una misura del grado di distruttività che io ho dentro. Il grado di odio. Il bambino è il termometro di tutto questo».
La nostra vita è cambiata. Abbiamo la sindrome della guerra senza essere in guerra. Il pericolo è altrove, ma è anche qui. In che modo influisce tutto questo nella nostra vita?
«Esasperando il tasso di inquietudine. E quando dico inquietudine dico una parola importante. Intendo per inquietudine quello che Freud chiamava Unheimlich, il "non familiare". Quando tu arrivi a casa, ti rilassi perché non temi nessun pericolo. Oggi è come se vivessimo costantemente fuori casa. Fuori dalla nostra casa interiore. Continuiamo a fare le cose abituali, ma con un'inquietudine fortissima, che porta alla autosvalutazione dell'esistenza. E allora l'esistenza diventa casuale. E non ci sono più regole morali, non ci sono più divieti».
Perché?
«Perché le regole, l'etica funzionano alla sola condizione che ci sia una prospettiva. E che ci sia un futuro. Nell'assoluto presente non c'è niente».
Quindi siamo arrivati a un nodo cruciale. Una domanda di futuro che è sempre più difficile immaginare.
«Una domanda di futuro, è vero, e una domanda di "senso". Il "senso" è una proiezione sul futuro. Allora ha senso studiare se domani io... ha senso lavorare in vista di... ma se il futuro mi vien meno, allora la categoria del "senso" mi crolla. Io non credo che il "senso" sia una categoria antropologica, non credo che tutta l'umanità viva in una dimensione di "senso", non credo che l'indiano che sta di fronte al Gange cerchi un "senso" alla sua vita. Penso che il "senso" sia una categoria di noi occidentali in quanto cristiani».
Le cose hanno senso se fanno parte di un percorso, se portano a qualcosa.
«Infatti. Il cristianesimo ci dice che il tempo ha senso: in vista della salvezza, in vista del progresso, in vista di tutte queste cose qui. E così l'idea del senso è diventata costitutiva per tutti noi. E anche se non è universale per tutti gli uomini, per noi è essenziale».
Tu sei pessimista o ottimista?
«Al momento attuale non ho nessuna speranza. Te lo dico sinceramente. E non ce l'ho perché penso che siano state minate le matrici antropologiche che fanno sì che l'uomo stia in piedi. E questo è determinato dal fatto che il futuro ci è stato tolto. Il futuro non è progettabile oggi. Il vero atto di terrorismo verso di noi è stato toglierci il futuro».

rcotroneo@unita.it