domenica 12 settembre 2004

Giorello:
Prometeo, Ulisse, Gilgameš

Corriere della Sera 12.9.04
L’ANTEPRIMA
Il Prometeo tecnologico e l’Ulisse di Dublino Come si trasforma la funzione del mito
di GIULIO GIORELLO

Anticipiamo un brano dal libro di Giulio Giorello «Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito», in uscita da Raffaello Cortina (pagine 250, 19,80) che viene presentato oggi a Mantova.

Prometeo libera la roccia cui è incatenato, Ulisse viaggia attraverso i suoi nomi, Gilgameš si realizza nello spettacolo delle sue mura. Si tratti di un dio, di un uomo o di un essere in parte dio e in parte uomo, le figure del mito calcano la scena del mondo, diverse e pur sempre identiche nel loro «discorso». Non si risolvono in un repertorio cui possiamo liberamente attingere. Piuttosto, dispongono del loro (e del nostro) destino, provocando la loro (e la nostra) metamorfosi.
Così, si dichiara prometeica la filosofia della natura da Isaac Newton a Erasmus Darwin - nel doppio scatenamento del Titano offerto da Percy Bysshe e da Mary Wollstonecraft Shelley; si popola di bloody men (ma anche women ) la Dublino di James Joyce, tra chiacchiere, inganni ed eroici furori, mentre un'improbabile Fenice spicca il volo su vetri infranti e muratura crollante. La figura dell'eterno viandante è insieme «ognuno e nessuno». Così essa ricompare all'inizio dei Cantos di Ezra Pound, colui che sperimenterà sulla propria pelle quanto si assomigliano «il prigioniero e il morto».
Con l'urto del tempo hanno a che fare nel mito gli dei ancor prima degli uomini.
«L'unico Dio, giacché ha fatto ogni cosa, colui che dal fango ha plasmato l'uomo: questo è il vero Prometeo». Ma l'antico Prometeo resta nel suo agire inesplicabile. Lo Shelley del Prometeo liberato non ha avuto tema di accostarlo all'arbitrio di Zeus. E la Shelley del Prometeo moderno lo incarna nel Victor Frankenstein ossessionato dalla conoscenza e bramoso di passare alla storia come benefattore di un nuovo genere umano.
Il gesto prometeico si è risolto in una creazione mancata, la sua metis ha partorito un inferno interiore (mai «il mutamento era stato così improvviso, la sconfitta così totale»). All'inferno è però condannata anche la Creatura: la «sua disumana bruttezza la rendeva quasi intollerabile alla vista». Non solo a quella degli altri, ma anche alla propria.
Non diversamente dagli uomini che nelle Opere e i giorni Esiodo descrive come coloro che si lasciano ingannare dalla speranza, la Creatura lascia «vagare i pensieri, liberi dal controllo della ragione, nei campi del Paradiso».
La Creatura, che all'inizio era piuttosto un Adamo, la cui unica colpa è quella d'essere smisurato e deforme, comincia ad assumere, sul modello del Prometeo liberato di Percy Bysshe Shelley, i contorni del vero Prometeo moderno . E come ogni Prometeo, lancia la sua maledizione: «Maledetto il giorno in cui ho ricevuto la vita! Maledetto creatore! Perché hai dato forma a un mostro così orrendo che persino tu lo rifuggi disgustato?».
La morte verrà da quel mostro che ora ama ripetere: «il mio potere è assoluto». Annientato Frankenstein, con «ardore triste e solenne» la Creatura promette al capitano, testimone di una tragedia non sua: «Salirò trionfalmente il mio rogo funebre ed esulterò nell'estrema sofferenza del tormento delle fiamme».
Col fuoco questo mito è cominciato; col fuoco termina, almeno all'apparenza. Mary Shelley nulla più ci dice di quel rogo funebre. La Creatura abbandona la nave per perdersi «lontano fra le tenebre». Ma può un dio dare la morte a se stesso? Potremmo sospettare di essere di fronte all'ennesima astuzia di quel «diavolo beffardo», capace non solo di sopravvivere al suo infelice creatore, ma di rivendicare orgogliosamente l'eredità di Prometeo. Del resto, nei film hollywoodiani la Creatura non ha finito per rubare a Victor il «terribile» nome?
La stella di Odisseo si rianima a nord del fiume Liffey. La sorte reca in serbo un nuovo periplo, confinato in un giorno e in una città. 16 giugno 1904, Eccles Street No. 7, Dublino: Ulisse di nome fa ora Leopold Bloom, mangia «con gran gusto le interiora di animali e di volatili», non disdegna «fette di fegato impanate» e «uova di merluzzo fritte» - ma, «più di tutto», ama «i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto di urina leggermente aromatica». Come sempre, accarezza la gatta di casa e si congeda dalla moglie Molly per vivere la sua «odissea moderna»: procacciare inserzioni pubblicitarie. Sarà accolto e respinto. Conoscerà la seduzione delle Sirene e rammenterà quella di Calipso. Assisterà a un funerale al mattino e a un parto alla sera. Scamperà alla violenza dei Ciclopi irlandesi e troverà la sua Nausicaa sulla spiaggia di Sandymount. Sarà tra i porci nel bordello di Circe e nient'affatto inflessibile con i proci che ne insidiano il talamo..., per ritornare al sonno come uno stanco Sinbad il marinaio.
Nell'Ulysses di Joyce tale destino si traduce nella deformazione ironica della vicenda e della struttura dell'Odissea. «È l'epopea di due razze (Israele-Irlanda) e nel medesimo tempo il ciclo del corpo umano e anche la storiella di una giornata (vita)», scrive Joyce all'amico Carlo Linati.
I personaggi di Joyce sulla scia degli insegnamenti di Giordano Bruno ci hanno insegnato a guardare nell'anima buia del mondo. L'unica via è scoprire «che il corpo sta tutto nell'anima» come recita il canto CXIV di Ezra Pound . Siamo alla soglia del senso, ed essa comporta la rinuncia alla superstizione di qualsiasi creazione dal nulla.
«Non sono un semidio. Non riesco a dargli un senso» (CXVI).
Per il poeta occorre ri-costruire, ossia ri-vedere, dal momento che
«il senso c'è già
anche se le mie note non fanno senso».
Ed è in tale riscrittura che
«tutto è di nuovo "paradiso"
un paradiso tranquillo
sui frantumi».
Questo è l'unico possibile punto d'arrivo per il poeta che ha conosciuto la maledizione del campo di concentramento di Pisa. Colui che ha provato a costruire nel verso e nell'azione un paradiso terrestre e ora chiede perdono. Non occorre che l'umanità si agiti: piuttosto
«lascia parlare il vento
così è il paradiso».