domenica 5 settembre 2004

Jean Paul Sartre

La Stampa Tuttolibri 4/9/2004
Sartre, una cartina di tornasole per incubi e ideali del ‘900
specchio autobiografico
Ermanno Bencivenga


IN primavera ho tenuto un corso per le matricole su L’essere e il nulla. L'ho già fatto un paio di volte in passato, ed è un compito che affronto sempre con un po' di trepidazione. Il testo è lungo e complicato, intriso di cultura filosofica (i ragazzi americani non studiano filosofia alle superiori); l'ontologia dinamica che articola e difende è quanto di più lontano si possa immaginare dalla nozione ordinaria, quietista e scientista, dell'essere; l'autore è un intellettuale europeo un po' affettato la cui formazione e le cui esperienze non hanno nulla in comune con quelle della gioventù californiana contemporanea. Eppure ogni volta i miei timori si rivelano infondati: gli studenti frequentano regolarmente, seguono il discorso con serietà e attenzione, fanno domande pertinenti in cui si avvertono perplessità e illuminazioni di carattere personale. E conseguono ottimi risultati agli esami - forse l'indicazione più eloquente che il tema li interessa e li coinvolge. Mi sono convinto che non sia un caso. Meglio di ogni altro filosofo del Novecento, Sartre dà voce a questo nostro tempo frattale e incerto: la sua prosa gonfia e turgida, le infinite digressioni che spezzano il filo del suo discorso, i suoi esempi talvolta irritanti ma sempre azzeccati (pensate alla donna che fa finta di non notare la mano dello spasimante e preferisce illudersi di attrarlo con la sua conversazione) disegnano soggetti senza Dio alle prese con una costante reinvenzione di sé stessi; rapporti sociali che, perso ogni legame rassicurante con la tradizione, si rivelano dominati dall'inganno e dal tradimento; una carne insoddisfatta e insoddisfacente cui lo spirito tenta sempre, senza riuscirci, di sfuggire; un'etica elusiva ed esigente, necessaria e impossibile. E lo fanno in uno stile che è fedele espressione del suo contenuto: che si reinventa a ogni pagina; che lascia balenare promesse mai del tutto mantenute, sogni mai del tutto realizzati; che nega con il suo impeto e la sua urgenza la natura descrittiva in cui il progetto fenomenologico minaccia costantemente di arenarsi. È per questo che gli studenti ne sono attratti, contro le mie e le loro aspettative: sono intimiditi dall'incedere tetragono e teutonico di Heidegger; li lascia indifferenti la disperata, seriosa ludicità e lucidità di Wittgenstein; ma capiscono Sartre, hanno l'impressione che parli a loro, di loro. Così, quando mi è comparso davanti un libro intitolato Il secolo di Sartre, non ho potuto che guardarlo con favore. Finalmente, mi sono detto, si spezza l'oblio sistematico del pensatore della libertà; compare qualche crepa nella generale congiura del silenzio con cui gli si sono fatti scontare la sua eccessiva popolarità e autorevolezza, la sua sfrontata indipendenza di giudizio, la sua incredibile capacità creativa, il suo controllo sicuro dei generi letterari più diversi. Finalmente potremo parlare con serenità di come un intero periodo della nostra storia sia riflesso nei testi di Sartre, almeno quanto l'opera di Kant riflette un'epoca ispirata dalle idee razionali e l'opera di Hegel ne riflette un'altra intimamente convinta del carattere magnifico e progressivo delle sue sorti. Ma sono rimasto deluso, purtroppo: Il secolo di Sartre non ha molto da dire sul secolo ventesimo e, in fondo, neanche su Sartre. Intendiamoci: queste carenze non sono dovute al fatto che qui manchino lo spazio o l'impegno. L'autore, Bernard-Henri Lévy, ha scritto un tomo di oltre cinquecento pagine e le ha occupate discorrendo, per quanto in modo un po' caotico, dell'intera produzione sartriana. Ma Sartre e il suo secolo non sembrano interessarlo granché. I fantasmi di Lévy sono altri: vuole capire come Sartre abbia acquisito tanta importanza, perché abbia voluto essere insieme Stendhal e Spinoza (perché riteneva di non poter primeggiare né come puro filosofo né come puro letterato, e quindi si è cercato una nicchia sua propria?), usando quali tattiche sia riuscito ad appropriarsi con successo del pensiero altrui. Ne viene fuori, inevitabilmente, un libro pieno di dettagli (sarei tentato di dire: di pettegolezzi), che posiziona Sartre rispetto ai suoi maestri e ai suoi compagni di scuola, alle sue famiglie e alle sue amanti, e così facendo lo inchioda a una condizione molto specifica, da cui nulla impariamo sul suo ruolo di icona universale. Come può riconoscersi in questo Sartre una persona che non sia stata allevata da un nonno sacerdote mancato e bibliofilo accanito, o che non abbia con la donna della sua vita una relazione di paradossale intimità e distanza (una relazione scritta, per lo più, in cui le dava rigorosamente del voi e le raccontava in tutti i particolari le sue avventure con altre), o che non abbia incontrato la catarsi in un campo di prigionia nazista? Che significato avrà, questo Sartre, per una persona che non conosca e magari non voglia conoscere i mille personaggi, quasi tutti francesi, che Lévy evoca nel costruire il suo presepio? Oppure, per arrivare infine all'aspetto più deteriore dell'operazione, come non chiudere il libro annoiati quando ci si rende conto che Lévy sta parlando soprattutto di sé stesso: che a ogni piè sospinto menziona i suoi libri, i suoi incontri con questo e con quello, le sue opinioni e idiosincrasie? Quando si capisce insomma che Sartre è solo un pretesto per un certo tipo di autobiografia? Lasciamo perdere Lévy, dunque, e torniamo ad aspettare che qualcuno si ricordi di Sartre. Che qualcuno davvero lo usi come cartina di tornasole per gli incubi e gli ideali del Novecento, come sensibile testimone e appassionato partecipe delle sue speranze e dei suoi orrori. Come simbolo e riassunto di un secolo.