domenica 5 settembre 2004

ragione e religione

Corriere della Sera 5.09.04
Ma gli eredi della Ragione
hanno perso l’antica saggezza
di ROBERTO RADICE*


«I sapienti dicono che cielo, terra, dèi e uomini sono tenuti insieme dall’ordine, dalla saggezza e dalla rettitudine... ed è per tale motivo che essi chiamano questo tutto cosmo , cioè ordine». Se fosse possibile in un’estrema semplificazione trovare la sorgente del pensiero occidentale, la coglierei proprio in questo asserto pitagorico del VI secolo a.C., forse pronunciato nella città di Crotone nell’antica scuola di Pitagora e tramandatoci da Platone. Lo metterei all’origine della cultura dell’Occidente non perché esso ci insegni qualcosa di particolare, ma perché si è subito depositato nel nostro subconscio cognitivo diventando una sorta di «pregiudizio» universale del modo di sentire, di conoscere e di operare. Per esso, noi sappiamo in anticipo, pur non avendolo ancora provato, che i fenomeni di domani seguiranno le medesime leggi di quelli di oggi e siamo certi che a parità di condizioni sortiranno i medesimi effetti.
Anzi, in un senso ancor più generale, avvertiamo che ogni cosa che esiste o esisterà in futuro sarà suscettibile di ordine e di ragione e pensiamo pure che se, eventualmente, un qualche disordine dovesse apparire all’orizzonte, questo sarebbe appunto «apparente», in attesa di venire riassorbito nella generale armonia.
In verità l’espressione pitagorica da cui muoviamo è molto più impegnativa e densa di quello che sembra. Non solo ci obbliga a credere che il tutto è razionale, ma anche ci costringe a ritenere che questa razionalità può essere da noi colta in pienezza di forma e di senso con la sola forza dell’intelligenza. Per tale motivo, quasi a nessun greco (fatta eccezione per qualche sofista o per qualche filosofo scettico) venne mai in mente di dubitare seriamente della capacità della mente umana a intendere il mondo e anche quando, nell’ultima fase del pensiero ellenico (ad esempio nel neoplatonismo) oppure nel giudaismo alessandrino, comparve l’idea che l’intelletto può imbattersi in qualcosa di inconoscibile, anche in questo caso non fu una deroga al principio di ragione, ma l’approdo a una specie di ulteriore ragione la quale non sta nel pensiero discorsivo, ma nell’intuizione assolutamente unitaria. Dunque, non si trattava tanto di un «inconoscibile», quanto di un «ineffabile».
Ma la ragione è difficile da difendersi quando, in maniera diretta o indiretta, i fatti della vita e l’esperienza della storia la smentiscono di continuo. Cos’ha di razionale la morte di Socrate? Non è forse una palese smentita della «saggezza e rettitudine» che reggono il mondo? No, direbbe Platone, perché il mondo è una realtà duplice, per metà fatto di idee di perfetto ordine e per metà fatto di chora , cioè di materia bruta e caotica. E qui appunto sta il male con la sua forza sovversiva e deviante. L’idea, però, domina comunque sulla chora e, quindi, ancora di «razionalismo» si deve parlare.
Allo stesso problema del disordine nel cosmo (dunque, a una contraddizione in termini) Aristotele dà una diversa soluzione: il disordine è solo nell’attimo fuggente, è solo in potenza, perché il telos - cioè il fine - del mondo intero mira alla perfezione, ossia alla Ragione.
E poi, perché affaticarsi ancora in questo assillante contrasto fra l’ordine e il disordine, il bene e il male, in un conflitto che non ha mai fine né sfogo? Vennero gli stoici (III sec a.C.) e spensero il problema. L’irrazionale non esiste proprio, c’è solo il logos - la ragione archetipa - e una natura vivente di carattere igneo, insita in ciascuna realtà ad animarla e a vivificarla. L’idea che qualcosa di irragionevole possa spuntare all’orizzonte è solo un errore di valutazione, un voler confondere il particolare con l’universale. Solamente nel particolare - affermano con forza gli stoici - sembra sussistere il disordine, ma, in verità, nella prospettiva del tutto, l’ordine è sovrano. E così, in un mondo perfettamente ordinato, provvidenza (perché tutto ciò che ci accade è «ragionevole») e necessità (perché tutto quello che avviene non può non avvenire) si identificano e l’unica libertà concessa all’uomo sta nel volere il volere del fato.
Quando poi, nella fase conclusiva del pensiero greco, a partire da Plotino (II-III sec d.C.), la Ragione trovò la sua prima collocazione in un mondo di assoluta trascendenza, non si trattò più di comprendere questo mondo - quello che interessava ai pitagorici - ma di fuggire da esso nella dimensione della pura ragione. A tal punto l’estasi, che in greco vuol dire «uscita», sembrò l’ultimo e definitivo approdo alla Ragione, intesa come la forza unificante del tutto.
Queste varie tappe che a me paiono figure del logos greco possono tutte collocarsi a fondamento del nostro modo di vivere e di pensare, come presupposti della scienza (per quanto riguarda il cosmo pitagorico), come archetipi del mondo dei valori (con riferimento a Platone), come giustificazione del progresso umano (secondo il finalismo di Aristotele), come naturalismo (secondo gli stoici) e infine come attitudine contemplativa per quanto noi dobbiamo ai neoplatonici.
Molto altro che non ha origini elleniche si è via via aggiunto alla nostra storia: il concetto di persona, l’empirismo scientifico e in genere la volontà di trasformare il mondo e non solo di conoscerlo. E si potrà anche dire che qualcosa di diverso e opposto vi si è aggiunto: ad esempio il consumismo, la comunicazione di massa, il fanatismo, la mercificazione dell’uomo e del mondo.
E infatti, per questi nuovi apporti la nostra civiltà sta cambiando e forse morendo.

* Docente di Storia della filosofia antica all’Università Cattolica di Milano