domenica 19 dicembre 2004

polvere di Sessantotto:
Theodor Wiesengrund Adorno...

La Stampa 19 Dicembre 2004
GELO E NARCISISMO DEL FILOSOFO CHE IL SESSANTOTTO ELEVÒ A IDOLO. INQUIETANTE PERSONAGGIO MA L’ESATTO CONTRARIO DELL’UOMO IN RIVOLTA
ADORNO
Il chirurgo e il paziente

di Enzo Bettiza

CREDO di essere stato uno dei primi a segnalare, in una tempestiva nota sulla rivista Epoca, la comparsa della traduzione italiana presso Einaudi di Minima moralia di Theodor Wiesengrund Adorno. Era il 1954, mezzo secolo fa. Qualche anno prima avevo letto il Doktor Faustus di Thomas Mann, storia del geniale compositore luetico Adrian Lewerkhün, controfigura romanzesca di Nietzsche e insieme simbolo tragico della Germania moderna. Nel romanzo mi avevano colpito le pagine profonde, commiste di lampi e di oscurità, in cui Mann, analizzando la difficile arte dodecafonica del protagonista, s'addentrava in perigliose incursioni filosofiche nei labirinti della musica moderna. Poi lessi il Romanzo di un romanzo. Qui il grande romanziere, spiegando la genesi e lo sviluppo della biografia immaginaria di Lewerkhün, rivelava per la prima volta il nome di un oscuro «filosofo della musica» che ai tempi della seconda guerra, durante il comune esilio in California, gli aveva dato un grosso aiuto teorico e tecnico per la composizione delle partiture musicologiche del libro. Il filosofo si chiamava Adorno. Questo spiega perché nel '54 acquistai subito Minima moralia, leggendoli d'un fiato e segnalandoli su Epoca.
Il singolare saggio dedicato alla critica folgorante della «falsa vita» contemporanea mi rivelò, più che un vero filosofo nel significato accademico del termine, un irrequieto «Kulturphilosoph» radicato nel solco di una specifica e poliedrica tradizione tedesca che da Schopenhauer e dall'aforistico Nietzsche doveva estendersi poi fino a Walter Benjamin e a Karl Kraus. Cultore di una filosofia antifilosofica, saggistica, letteraria, paradossale, a tratti lirica, in Adorno convivevano il musicologo, il sociologo, l'estetologo e l'analista perfino minimalistico della vita contemporanea. Moda, costume, pubblicità, cinema, industria culturale, relazioni familiari e umane rientravano nell'arco della sua drammatica quanto pirotecnica visione del mondo occidentale. Non a caso Adorno era stato, con Horkheimer e Marcuse, tra i fondatori della Scuola di Francoforte che in realtà era un «Circolo» non dissimile per alcuni aspetti da quello di Vienna. Per me egli era un pensatore estremo, un ulisside del paradosso, un corsaro del limite, un pessimista aggressivo che nella crisi e nella consunzione dell'arte moderna cercava le tracce di una crisi senza scampo dell'intera società borghese. Vedevo un pensatore che azzardava di pensare il non ancora pensato, il non ancora detto, ed è qui una delle ragioni che ora mi spinge a inserirlo in questo mio archivio memorialistico.
Tanti intellettuali europei considerano oggi gli scritti di Adorno datati e superati. Ma non era così nel Sessantotto. Allora quegli stessi intellettuali, studenti ribelli, scoprivano un punto di riferimento rivoluzionario nelle lezioni che il professore ebreo teneva nella medesima Francoforte da cui era emigrato dopo l'avvento del nazionalsocialismo. Io, che dopo gli anni passati in Unione Sovietica scorgevo nei moti sessantottini un lusso autolesionistico di società troppo libere e permissive, ero andato proprio in quell'anno a Francoforte per incontrarvi Adorno. Volevo capire, a distanza ravvicinata, quale punto di contatto potesse esistere fra il pugnace pessimista, il critico intransigente della società capitalistica, e le utopiche folle giovanili che avebbero voluto annientare la tolleranza liberale di cui largamente fruivano e definivano «repressiva».
La spinta al modernismo più sfrenato, all'imitazione dell'America, coinvolgeva la vita di Francoforte in tutti i suoi molteplici aspetti: non solo nelle manifestazioni studentesche tipo Berkeley, ma nella mondanità vorticosa della nuova borghesia miracolata, nella febbrile rotazione delle fiere, nel traffico intenso del più importante aeroporto tedesco. Non si sottraeva al ritmo neppure l'organizzazione della cultura. La partecipazione alla fiera del libro di Francoforte era già a quel tempo la più ambita dagli editori di tutto il mondo; come i titoli e le valute, anche l'editoria, sia tedesca che europea, aveva lì la sua Borsa internazionale. Di un processo d'aggiornamento forzato, di massificazione, di snobismo, risentiva perfino la Johann Wolfgang Goethe Universität: accanto all'austero edificio accademico sprofondava una gigantesca autorimessa sotterranea, destinata a inghiottire le vetture di una parte dei venticinquemila studenti più o meno ribelli che lo frequentavano.
Quel turgido universo francofortese sembrava aver trovato il suo Socrate vivente nel concittadino allora più illustre in patria e all'estero. T.W. Adorno, come lui stesso amava definirsi all'americana. Si poteva quasi scoprire il segno del fato nel suo ritorno a Francoforte, dopo il lungo esilio californiano. Il filosofo dell'alienazione, l'ideatore della «spettroscopia bizantina» delle società occidentali del XX secolo, era tornato a insegnare nella città germanica che più delle altre esprimeva quell'alienante paesaggio americanizzato su cui s'avventava la sua polemica catastrofista.
Devo ammettere che il mio incontro col mèntore idolatrato dai giovani in eschimo fu, nell'insieme, imbarazzante e piuttosto deludente. Io, ricordando la più icastica frase di Minima moralia, «non c'è vera vita nella falsa», mi preparavo a incontrare un asceta fustigatore, un moralista pallido e perduto in meditazioni apocalittiche. Non a caso rammento poco di quello che mi disse; rammento invece l'aria ambigua della contraddizione in cui respirava e si muoveva.
Infatti mi toccò di captare e di vedere l'esatto contrario dell'uomo in rivolta, come scrisse Elémire Zolla, «contro gli spettacoli orridi che la civiltà delle macchine fornisce». Dalla sua faccia rotonda, impeccabilmente sbarbata e profumata, dal doppiopetto di taglio britannico non emanava l'odore stantìo del cenobita. L'appuntamento con me pareva innervosirlo. Aveva fissato rigorosi venti minuti per il colloquio e, ogni tanto, guardando l'orologio, mi ripeteva che di lì a poco avrebbe dovuto ricevere una pittrice per un ritratto e un giornalista per un'intervista televisiva. Il telefono squillò spesso e lui rispose sempre. La parte dialogata delle visita si contrasse sempre di più e si ridusse in sostanza a dieci minuti febbrili.
La verità è che Adorno non si ritraeva affatto dagli «spettacoli orridi» di Francoforte, soggiaceva volentieri agli stimoli del successo, non si mortificava nell'astinenza di fronte a quella vita malata, ammorbata dalla cultura di massa, che, nei libri, condannava anche nei più insignificanti fatti quotidiani. Appariva anzi pragmaticamente calato dentro di essa. Era sempre presente dove più infuriava l'alienazione, ed era il primo a gustarne le droghe. Aveva la cattedra del divo e dell'ipnotizzatore negli atenei, nelle manifestazioni studentesche, nei salotti, nelle mostre d'arte, nelle aperture teatrali. Lo circondava immediatamente, ovunque si presentava, un'aureola di morbosa mondanità. Il clima di fanatismo intellettuale, che surricaldava l'atmosfera intorno alle sue lezioni, era paragonabile a una forma speciale di psicosi collettiva: soltanto Heidegger, al suo tempo, riusciva a produrre consimili incantesimi accademici e carismatici. Le studentesse, anche se non avevano capito nulla, uscivano dalle Hörsäle adorniane con gli occhi luccicanti e rapiti. Un nobile di Hannover aveva abbandonato casa, averi, famiglia, ed era sceso come un pellegrino medievale a Francoforte per immergersi fino al collo nei corsi di Adorno.
Cercarono di spiegarmi il fascino complesso ch'egli esercitava su coloro che affollavano le aule in cui si esibiva. Non sorrideva mai. Il taglio della bocca era breve, crudele. Suggestionava l'uditorio con una scioltezza fredda, un'erudizione vastissima e brillante, un'oratoria ornata di francesismi, tersa, neutra, scorrevole. Non parlava: porgeva sottovoce, accarezzandoli con la piccola mano curata, concetti perfettamente congegnati in ogni particolare. Dal viso paffuto e nitido come quello di un chirurgo, dal corpo minuto e smussato, dagli occhi neri aperti con distacco su un punto vuoto, non spirava per nulla l'aria del filosofo maledetto, alla Nietzsche, del quale lo stile lampeggiante di Adorno risentiva tanto. Sembrava soprattutto preoccuparlo di non turbare con l'emozione le analisi distruttive che esponeva e alle quali lui, lucidamente, rimaneva sempre un po' esterno. Più che un naufrago in preda alla disperazione, un organizzatore e uno stratega della disperazione. Il suo pessimismo, la sua acuta sensibilità al negativo, apparivano attanagliati dalla morsa di un'intelligenza gelida e dal piacere estetico per il gioco speculativo in sé.
La vanità pratica faceva da contrappeso alla sua disperazione teorica o, meglio ancora, teoretica. Per cui Adorno risultava alla fine, e nello stesso momento, soggetto e oggetto del proprio antisistema critico. Egli ammetteva che il meccanismo corrosivo di Minima moralia, costruito per intaccare la società dell'affluenza americana, si poteva benissimo applicare anche alla società tedesca del miracolo, ormai giunta ad un punto di saturazione inquinante come negli Stati Uniti. Spingendo più in là la trasposizione, si sarebbe potuto dire che lo stesso meccanismo, applicato in astratto ai macrorganismi sociali, era possibile applicarlo in concreto al microrganismo esistenziale dell'autore.
La malattia che Adorno denunciava penetrava nella sua persona, faceva blocco con essa, e le parti ad un certo punto finivano per confondersi nel gioco d'incastro. La realtà sociale da lui stroncata si rifletteva specularmente, come in un circolo vizioso, nel suo specchio personale. Il suo sociologismo esasperato, che non sfociava mai in una sintesi terminale, che restava sempre dischiuso a una paradossale apertura nichilistica, correva il rischio di rovesciarsi nel contrario per disperante eccesso dialettico. In altre parole: correva il pericolo di diventare alla fine un'accettazione, una resa davanti al male esistente o, addirittura, una sua forma pervertita di celebrazione. In questo senso la vita falsa, scomunicata nel libro, si esaltava nella condotta privata. Il più singolare e inquietante personaggio culturale del lungo dopoguerra tedesco era, alla sua maniera, un cervello beffardo che continuamente e simultaneamente si sdoppiava nei ruoli contrapposti del chirurgo e del paziente. Mentre il chirurgo si disperava, il paziente conviveva in strana simpatia coi propri mali inguaribili ma esaltanti.