domenica 23 gennaio 2005

Corriere Salute 23.1.05
la fede è un antidoto al dolore?
Neuroscienze. Un gruppo di ricercatori di Oxford ha intrapreso uno studio per capire quanto un credo religioso influisca sulla soglia della sofferenza.
I partecipanti, volontari, subiranno "piccole torture"
di Franca Porciani


La fede nel sovrannaturale, in qualsiasi modo si esprima, anche con il fanatismo dei fondamentalisti, modifica le risposte del cervello al dolore? Un gruppo di neurologi, filosofi e teologi inglesi ha deciso di trovare una risposta ad un quesito che serpeggia da tempo nel campo delle Neuroscienze. Lavorando per due anni, grazie ai due milioni di dollari elargiti dalla John Templeton Foundation, su volontari, credenti e miscredenti, cattolici, protestanti e altro, disposti a subire piccole torture - farsi spalmare sulle mani un gel di peperoncino che produce la sensazione di una bruciatura, ad esempio -, per scoprire se i loro circuiti cerebrali sono influenzati dal "fattore fede" e in che modo. L'attività dei loro cervelli sarà registrata con la Tac e la Risonanza magnetica.

La baronessa Susan Greenfield, neuroscienziata di fama, autrice di best-seller, come La vita privata del cervello , Il cervello umano: un tour guidato , che il quotidiano The Guardian inserisce fra le cinquanta donne più influenti del Regno Unito, crede incondizionatamente in questo nuovo filone di ricerche. Gli studi sul "fattore fede" saranno coordinati dal suo Istituto, il Centro per la scienza della mente, nato da pochi mesi all’Università di Oxford. «Bisogna cominciare a chiederci come il credo religioso, o comunque, le convinzioni forti di una persona influiscono e modificano i circuiti del nostro cervello, o, forse, ne creano di nuovi - afferma la baronessa - . E’ strano che non si sia fatto finora; è come se fossimo interessati allo stomaco e non alla digestione, cioè al processo di cui quest’organo è protagonista. Nell’esplorazione di questo nuovo mondo, la soglia del dolore è un primo passo di grande interesse».
In questi giorni i quotidiani inglesi hanno dato risalto alla ricerca di Oxford, ai nastri di partenza adesso - durerà almeno due anni -, evocando le torture della Santa Inquisizione perché i volontari che accetteranno di diventarne oggetto dovranno subire qualche piccolo supplizio.
Un gel a base di peperoncino spalmato sulla mano provocherà la stessa percezione dolorosa di una bruciatura, mentre un tampone scaldato fino a 60° infliggerà la pena di una scottatura.
Non solo: nello studio si andrà a verificare se la visione di certi simboli religiosi, come il crocefisso o l’immagine di Maria, rinforzando la fede della volontaria vittima, attenuano la percezione dolorosa. E si potrà anche definire quali sono le persone con la soglia del dolore più alta, se quelle confortate dalla fede (di qualsiasi confessione) o gli atei convinti.
Un potente placebo
La parte più interessante è la possibilità di fotografare, attimo per attimo, con le tecniche di imaging cerebrale, la Tac e la Risonanza magnetica, l’attività dei neuroni di questi volontari e d’identificare le aree cerebrali attivate di volta in volta.
Il singolare studio, che oltre a farmacologi e neurologi, coinvolge filosofi e teologi si inserisce in un filone di ricerche, principalmente americano, che tenderebbero a dimostrare come la fede aiuti a controllare il dolore. Ipotesi cara anche a Lewis Wolpert, dell’University College di Londra, sempre più convinto che la religione non sia l’oppio dei popoli, come affermava Carlo Marx, ma il più potente placebo inventato dalla cultura occidentale.
I limiti
Ma i propositi dei ricercatori di Oxford, che possono contare su un finanziamento di due milioni di dollari della Templeton Foundation, non sono un po’ ambiziosi?
«Forse sì - risponde Paolo Marchettini, Responsabile del Centro di medicina del dolore dell’Ospedale San Raffaele di Milano - . Soprattutto perché la ricerca, per quanto se ne sa adesso - mancano i dettagli su come verrà articolata - vuole scoprire i segreti del controllo della sofferenza a livello cerebrale attuando un esperimento che ha invece a che fare con un fenomeno diverso, quello della nocicezione, la percezione del dolore a livello periferico. Mi spiego meglio: se applico uno stimolo doloroso, ad esempio il tampone caldo o il gel al peperoncino sulla pelle, dai recettori presenti sulla sua superficie parte un impulso che correndo lungo i nervi sensitivi, arriva al midollo spinale. Da qui il messaggio non procede immodificato verso la corteccia cerebrale. Esiste un sistema di contrattacco, definito discendente - da cui il detto, il dolore inibisce il dolore - che, partendo dal cervello, cerca di bloccare l’impulso. In altri termini, quello che noi sentiamo alla fine è frutto di qualcosa di ben più elaborato della semplice percezione dello stimolo che fa male».
L’esempio più clamoroso e più studiato della potenza del meccanismo di inibizione sono i fachiri indiani. Questi individui, attraverso forme di autosuggestione particolarmente intense - si parla di estasi - riescono ad attivarlo alla perfezione, tanto che la percezione del dolore si attenua fino quasi a vanificarsi.
Il risultato è che l’abnorme intensità dello stimolo diventa sopportabile: i fachiri camminano sui carboni ardenti, si sdraiano tranquilli su lame appuntite e fanno molte altre cose straordinarie.
Fenomeni di autosuggestione si ritrovano anche nella vita di molti Santi che si infliggevano pene corporali crudelissime, dando prova di sopportarle senza conseguenze.
Le prospettive
«Quindi, più che di piccole torture, abbiamo bisogno di capire il processo cognitivo che modula l’intensità della sofferenza individuale, quindi anche la soglia del dolore, agendo su questo meccanismo di inibizione - prosegue Marchettini - . Processo che ha una dimensione culturale, che si adatta alla convenzioni sociali, alle giustificazioni etiche, ai contenuti spirituali e che si integra con la sfera affettiva, con i sentimenti. Di questa elaborazione si sa abbastanza per quanto riguarda il dolore cronico, molto meno per quello acuto».
Ma niente frena l’entusiasmo di Susan Greenfield e del suo più stretto collaboratore, Toby Collins, convinti di riuscire a scoprire perfino cosa scatta nei circuiti cerebrali dei fondamentali islamici, tanto da permettere loro di darsi la morte a fini terroristici.
Sarà, però, difficile trovare in quella "cerchia" volontari disposti a provare il brivido del gel al peperoncino o del tampone caldo sulla pelle. Ma chissà...

Altre indagini
Pregare sembra che aiuti a guarire

La preghiera allunga la vita, fa ammalare di meno e guarire prima. Sono più di trent'anni che alcuni studiosi americani si interrogano appasionatamente sul tema. Di questi uno dei più famosi è Herbert Benson, clinico della Harvard Medical School, autore di molti studi sull'effetto benefico della meditazione sul metabolismo, sulla respirazione e sulla pressione, studi che sempre sono stati accolti con favore dalla comunità scientifica. In effetti lcune ricerche, condotte con rigore, hanno dimostrato che fra i pazienti ricoverati in unità coronarica per un infarto, quelli che pregavano ed erano sostenuti da una fede forte, approdavano più velocemente alla convalescenza. Da altre ancora emerge il beneficio delle pratiche religiose: nel 2002 la rivista British Medical Journal pubblicò uno studio secondo il quale il rosario (quello canonico, in latino) recitato ogni giorno regolarizza il battito cardiaco e la pressione nelle persone che soffrono di scompenso cardiaco cronico.