La Stampa 13 Febbraio 2005
GLI EREDI DEI TOTALITARISMI
UN MACABRO MERCATO DEL PASSATO
di Barbara Spinelli
ORMAI si è creato un tale groviglio di memorie e di colpe, più o meno assunte dai nipoti italiani del comunismo e fascismo, che districarsi è difficile e trarre lezioni impervio. È un groviglio che occupa per intero la scena del nostro ricordare, che la riempie di un gran numero di colpevoli o responsabili in via di redenzione, e praticamente su quella scena non c'è più spazio per chi al momento giusto non sbagliò, trovò il modo solitario d'imboccare il sentiero della verità, rifiutò la menzogna delle grandi illusioni utopiche, della felicità imposta per decreto. È una scena invasa dagli ex, e il potere che questi esercitano è non solo vasto ma divorante. Più grande il crimine di cui essi son responsabili, più grandiosa sarà l'espiazione, e più spazio essi troveranno su stampa o tv.
I discendenti dei due totalitarismi si sono sforzati e si sforzano di trasformarsi, ma una parte del loro animo è come se restasse abbarbicata alla colpa originale: quasi fosse lì la loro segreta forza contrattuale, lì la fonte non già d'un dovere, ma d'un diritto: «Io sono all'origine di tanti e tanti morti, e tu quanti ne hai? Non abbiamo quindi tutti e due diritto a....». Spesso, per assecondare questo macabro mercanteggiamento di vittime, si ingigantisce il peso avuto dall'ex nemico totalitario. D'un tratto sembra che tutti gli intellettuali fossero comunisti, dopo il '45, e che tutti i soldati italiani alla fine della guerra fossero schierati con la Repubblica di Salò nella veste di «soldati combattenti», come suggerito dal partito di Fini. Non solo: sembra che tutti fossero adolescenti e non adulti responsabili (su questo giornale, lo storico De Luna ha parlato del «mantello assolutorio dell'adolescenza»). Un bel pezzo di storia italiana è consegnato a masnade di imberbi - i Ragazzi di Salò, della Resistenza - incapaci d'intendere e volere come minorenni di un'immensa Novi Ligure.
Ovvio che in questa Repubblica di Ragazzini viene cancellato il ricordo e soprattutto l'esempio degli uomini adulti, dunque imputabili, che vogliono rispondere del proprio operare ma anche del proprio ragionare. Questi non vengono neppure nominati, da chi si presenta al mercato delle memorie, e tuttavia c'erano, in Europa e da noi. C'erano, i pensatori antifascisti. C'era, nella guerra fredda, il Congresso per la Libertà della Cultura, nato nel '50 a Berlino su iniziativa di eccentrici come Koestler e Silone, Aron o Camus. C'erano, le riviste nate da quel Congresso: Tempo Presente di Silone e Chiaromonte in Italia, Preuves di François Bondy in Francia, Der Monat in Germania. Sono gli eredi di questi ultimi che oggi vengono dimenticati, forse perché non ci sono continuatori della loro arte di pensare e dibattere su questioni fondamentali con vera libertà. La censura li tacita una seconda volta, proprio nel momento in cui più avremmo bisogno, per pensare il mondo e le sue controversie, del loro modello.
Quando la memoria s'ingarbuglia non diventa per questo più intera, come negli auspici del presidente Ciampi. Diventa memoria selvaggia, al tempo stesso ridondante e mutila, fatta di innumerevoli frammenti strappati al loro contesto e gettati in faccia a chi era nemico ed è ora rivale nella compravendita dei ricordi: e soli protagonisti sono quelli che azzanna forte, perché già in passato sono stati azzannatori. È il privilegio sublime del criminale, che accumula delitti per poi mettere in mostra la maestà dell'ammenda. Gli eroi di Dostoevskij son fatti di questa pasta, e le nostre dispute sono una loro imitazione grottesca. In un saggio su Dostoevskij, Freud denuncia il trionfo del moralismo penitente sulla vera moralità: «Morale è chi già reagisce alla tentazione avvertita interiormente, e ad essa non cede. Colui che prima si macchia di colpa e poi, in preda al rimorso, pone a se stesso elevati obiettivi morali, può essere accusato di fare i propri comodi. Manca in lui l'elemento essenziale della moralità, la rinuncia, essendo la condotta di vita morale un interesse pratico dell'umanità. Questo tipo d'uomo richiama alla memoria i barbari delle migrazioni etniche, i quali uccidono e poi fanno ammenda per l'uccisione: dove l'ammenda diventa una pura e semplice tecnica volta a rendere possibile il delitto». (Dostoevskij e il Parricidio, 1927. Il corsivo è mio). L'espiazione purificatrice è mirabile: il Figliol Prodigo l'insegna. Ma chi non peccò ha inalterabile grandezza, non nella provvidenza divina forse, ma di certo in politica.
Questo manca, nelle zuffe odierne sulla memoria. Manca l'evocazione di una memoria intera, perché solo se si conosce il concatenarsi dei fatti (i nazionalismi del '14-'18 e i nazi-fascismi, la politica razziale e il comunismo, evocati da Ciampi a proposito delle fosse carsiche) si può capire come poté insorgere un crimine di pulizia razziale pari alle foibe, e si può evitarlo in futuro. Manca un rammemorare critico che si proponga, come in Freud, l'interesse pratico dell'umanità, e che serva non tanto per scrivere storia ma per farla: in qualità non di storici di professione ma di cittadini che edificano, ricordando e commemorando, presente e futuro.
Se si ha in mente l'interesse pratico del rammemorare o del chiedere perdono, non si fanno errori di semplificazione, come quelli visibili oggi. Di questi errori ne vorrei menzionare qui due.
Il primo consiste nel considerare che solo l'esito della guerra abbia determinato l'invalidità d'un progetto totalitario. La storia «è scritta dai vincitori», e a simile dato ineludibile anche se ingiusto noi ci adattiamo chiedendo ammenda: quest'atteggiamento è forte nei postfascisti, che hanno appena cominciato la critica del passato, restringendola per ora al fascismo e non estendendola agli anni del terrorismo nero. Ma è un atteggiamento che a volte affiora anche negli eredi del comunismo - non tanto nei politici ma negli intellettuali, sovente più lenti: per esempio, quando il filosofo Cacciari s'inalbera contro chi denuncia falce e martello: «Male è (per loro, ndr) tutto ciò che non s’accomoda nel campo del vincitore (...) Se falce e martello è come croce uncinata, e alle loro menti vincitrici evocano la stessa cosa...», dimenticando che i vincitori della guerra fredda non sono solo americani o capitalisti: sono i resistenti rappresentati oggi da chi (in Lituania, Ungheria) reclama la condanna d'un emblema che per mezza Europa significò morte e ideali intessuti di menzogne.
Questo lamento risentito dello sconfitto è il peggior modo di rammemorare, perché sembra che il ripensamento sia solo dovuto a una disfatta strategico-militare. Se l'ultima guerra fosse stata vinta e non avesse reclamato il «sangue dei vinti», i fascisti sarebbero magari tuttora fascisti. Se l'Urss avesse vinto, i comunisti sarebbero ancora comunisti. Una memoria di tal tipo non crea pace ma perpetue guerre civili: con un uso pratico nullo, se perfino gli ex terroristi accampano oggi il diritto del vinto - oltre che dell'adolescente - e dicono d'aver abbandonato la lotta solo perché sgominati da polizia e giudici.
Il secondo errore è legato alla questione falce e martello. Ancora un volta, si tende a staccare l'idea e il simbolo dal loro concretarsi, e questo per salvare non solo il concetto ma anche la sua specifica realizzazione nelle democrazie non sovietiche: falsificando non poco la storia, perché per decenni il comunismo italiano o francese puntò su una rivoluzione stile Urss, e non sulla democrazia dell'alternanza. Questa estrapolazione dell'idea in sé, tramutata in ideale immune da colpe, senza rapporto con la realtà, serve male la memoria rendendola rancorosa anziché condivisa.
Anche nell'antica indiana croce uncinata c'era un ideale: non umanistico - come giustamente sostiene Thomas Mann - ma di armonia cosmica, di abolizione dei terreni conflitti. Diversa era la congiunzione falce-martello, operai-contadini, ma anch'essa aveva il compito di redimere il mondo corrotto, finendo ogni conflitto. In questi simboli ci son dunque vizi d'origine non paragonabili, ma che conviene indagare con eguale rigore. Nelle idee stesse ci doveva essere qualcosa di marcio, se le cose scaturite da esse son tanto degenerate e se il loro simbolo risveglia incubi in uomini come il violoncellista Rostropovich. Neanche le idee sono assimilabili a Ragazzi: la realtà infetta anche loro, irrimediabilmente.
«L'idea era buona, solo si è mal realizzata». A mio parere le cose non stanno così: l'idea forse era insolente, smisurata, non pratica. L'idea del Bene si può scatenare, debordare gli argini, farsi intoccabile feticcio totalitario. Divenne tale fin da quando Saint-Just, propagandista del Terrore giacobino, disse davanti ai deputati, il 3 marzo 1794, nel momento in cui espropriava i possidenti: «La felicità è un'idea nuova in Europa!». Era già allora una felicità imposta con la lama della ghigliottina, nell'illusione di non contaminare l'idea con l'agire. E ancor oggi l'illusione riaffiora, in chi pensa di poter affastellare cadaveri e guerre in nome di una morale superiore della democrazia. Fare ammenda su fatti frammentari, e non criticare anche le idee (d'una nazione, d'un popolo, d'una razza, d'una classe eletti) corre facilmente il rischio di diventare «pura e semplice tecnica, volta a rendere possibile il delitto» anche nel futuro.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»