domenica 13 febbraio 2005

professori a rischio di patologie psichiatriche

L'Eco di Bergamo 13.2.05
Povero prof c'è da perdere la testa

E' vero – come ha avvertito Vittorio Lodolo D'Oria – che i nostri ragazzi hanno di fronte insegnanti a rischio di follia?
Sì. È tutto vero. Lodolo D'Oria è il responsabile scientifico dell'Area scuola e sanità della Fondazione Iard ed è medico del Collegio delle Asl di Milano e provincia per il riconoscimento dell'inabilità al lavoro per cause di salute. La sua ricerca «Quale rischio di patologia psichiatrica per la categoria professionale degli insegnanti?» ha suscitato un salutare pandemonio.
In sintesi si può affermare senza tema di smentite che tra ansia, disturbi dell'umore e della personalità, schizofrenia e psicosi, demenze, disturbi cognitivi, anoressia nervosa, abuso di sostanze e assimilati, a soffrirne sono in parecchi. Né tranquillizza sapere che le percentuali sono in costante aumento: dal 44,5 per cento del triennio '92-'94 si è passati al 56,9 per cento del 2001-'03. Nel linguaggio dei famosi conti della serva, vuol dire un insegnante sì e uno no. Anzi, qualcosa di più.
Da cosa deriva tutto ciò? Si potrebbe rispondere così: i docenti se n'escono pazzi non perché sono pazzi loro, ma perché è folle – in senso tecnico – il sistema in cui sono inseriti.
Qualche esempio da cui derivare conseguenze di metodo.
Da viale Trastevere (la sede del ministero della Pubblica istruzione) hanno continuato per anni a battere come forsennati sulla necessità della programmazione didattica. Per programmare famigerati «monoenni» (metà di un biennio. Ma non bastava dire «anni»?), semestri, mesi, giorni e mezze ore di compresenza i docenti hanno profuso immani risorse in tempo, energie nervose, soldi per babysitter, nel vano tentativo di dar significato univoco alle formule del burocratichese o della neolingua dei pedagogisti.
Tutto ciò assodato, il ministero non ha mai mostrato alcun ritegno – ad anno ormai inoltrato – a buttare all'aria le sudate carte della progettazione, come capita a chi sia colpito da convulsioni febbrili o da euforia da farmaci.
L'anno passato, lo sanno tutti, ha obbligato ad inserire nelle ore curriculari (ossia nell'orario solito) una quota assolutamente imprevista di spazi da dedicare all'educazione stradale. Obiettivo: il patentino agli studenti. E nessuno si è premurato di domandare, se non altro, da dove traessero gli insegnanti le competenze specifiche per la bisogna. Così anziane professoresse di lettere hanno tenuto vere e proprie orazioni sul valore civile del rispetto del segnale di stop; quelli di scienze hanno lungamente intrattenuto il pubblico sulle fratture craniche derivanti dal mancato uso del casco; e i fisici hanno riempito lavagne e lavagne per spiegare cosa sia la forza centrifuga e il principio di inerzia e l'accelerazione di gravidanza, come mi spiegò una fanciulla allarmatissima.
Ovviamente il ministero – che pure aveva sollecitato il ricorso alla gloriosa arte di arrangiarsi – aveva contestualmente stanziato per il progetto i necessari fondi. I quali, tuttavia, non potevano al momento venir erogati per sopraggiunte impreviste difficoltà.
Qualche anno prima, sempre ad anno inoltrato, era stato ingiunto agli insegnanti di storia il cui programma «arrivava» al 476 d.C. (fine dell'Impero Romano d'Occidente) di spingersi fino al 1300. Con le stesse ore di prima, ovviamente. In compenso senza testi, perché quelli acquistati a settembre prevedevano mille anni in meno. Come se un autista di Tir in viaggio tra Bergamo e Chivasso si sentisse intimare, in prossimità di Arluno, di arrivare all'ora prevista e senza pieni suppletivi non nella cintura torinese, ma a Toulon-Marseille.
Casi come questi, tuttavia, ossia interventi che mettono in luce non una inadeguatezza dei docenti, ma la totale irresponsabilità del ministero, sarebbero ancora il male minore.
Qualche elemento di gravità in più si constata in alcuni testi ormai leggendari, come la frase posta in epigrafe alla per altro mai attuata riforma De Mauro. Vi si sosteneva che il ministero prevedeva per i docenti un futuro di «alta e specifica professionalità». Una prospettiva niente male, se poi per i medesimi non si fossero previsti i salari caratteristici di una bassa e generica manovalanza.