mercoledì 16 febbraio 2005

due articoli di Simona Maggiorelli
su AVVENIMENTI
un dossier sul consumo farmaceutivo

su Avvenimenti in edicola fino a venerdì prossimo.
Sono pubblicati ad incipit di un dossier di dodici pagine che il settimanale dedica al consumo farmaceutico in Italia
Basta un poco di zucchero...
A casa degli italiani, in arrivo, il libretto di Berlusconi e Sirchia sui farmaci. Ma l’aumento di spesa molto è dovuto alle case farmaceutiche che immettono di continuo sl mercato nuovi farmaci , in realtà le solite vecchie e funzionanti molecole, ma con un nome nuovo e in scatole dal prezzo quadruplicato.
di Simona Maggiorelli

Berlusconi va alla guerra con la spesa farmaceutica. O almeno simula la mossa. Ma sbaglia subito bersaglio. E invece di contrattare i prezzi dei farmaci con chi produce, scrive una bella letterina agli italiani, con saggi consigli al risparmio. Il sospetto che si tratti di un’operazione di immagine da qualche parte sorge; sulla scia della campagna “dentiere per tutti”, metro per misurarsi la pancia, confezioni rimpicciolite di bibite e merendine, perché le mamme ne comprino due. Insomma, solita soluzione di maquillage di fronte a un problema, quello della spesa farmaceutica, che chiederebbe rimedi meno artigianali.
L’incremento di spesa e di consumo di farmaci c’’è. In Italia, solo nei primi sei mesi dell’anno passato è aumentata del dieci per cento. Ad essere esatti c’è stato un aumento del 9,7 per cento, pari a 799 milioni di euro. E se a questo si aggiunge che nel complesso, nel triennio 2000 al 2003, i consumi di farmaci erano già aumentati del 24 per cento; il quadro è quello di una rapida, rapidissima impennata. In testa alla top ten dei consumi ci sono i farmaci per le malattie cardiovascolari, che da soli rappresentano oltre il quaranta per cento delle prescrizioni, con in testa le statine per il controllo del colesterolo. Seguono i medicinali per l’apparato respiratorio e gastrointestinale, e quelli per il sistema nervoso, con in cima gli antidepressivi, di cui pare gli italiani siano, sul modello americano, sempre più larghi consumatori.
A fotografare l’uso dei farmaci e la spesa in Italia è il rapporto nazionale dell’uso dei farmaci in Italia stilato dalla neonata Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, collegata al ministero della Salute. Ma qual è la principale causa dell’aumento della spesa? Secondo Nello Martini, direttore generale dell’Aifa "I pezzi sono rimasti stabili, ma sono aumentate le ricette"; la colpa, insomma, sarebbe dei medici che, marcati stretti dagli informatori farmaceutici, avrebbero la mano facile nella prescrizione. Il meccanismo che si viene a instaurare fra medici e informatori ce lo spiega il dottor Antonio Fanciullacci, medico di base e responsabile di gruppi medici di sperimentazione farmaceutica. "La strategia utilizzata dalle case farmaceutiche è quella di immettere sul mercato sempre nuove molecole - spiega - ma in molti casi si tratta solo di operazioni di restyling, di piccoli cambiamenti. In sostanza sono le solite, vecchie, molecole ma con un nome diverso e ad un prezzo quadruplicato. La politica degli informatori è di presentare al medico solo i farmaci nuovi, "quelli vecchi e tuttora validi, addirittura non li portano più", dice Fanciullacci. Insomma quella dell’informatore efficiente è la tecnica di bombardamento: presentare prodotti commerciali nuovi con il ritmo tale che il medico di base, da solo, non ha il tempo materiale di studiarli e fare ricerche. "Per poterlo fare dovrebbe chiudere l’ambulatorio e quasi fare solo quello".
Quando, invece, i metodi per mettere a dieta la spesa farmaceutica ci sarebbero. Eccome. In Toscana, con una cooperativa di colleghi, Fanciullacci ne sta sperimentando alcuni. "Un strumento importante - dice - è il cosiddetto doppio canale". Riguarda i pazienti con gravi patologie costretti a casa e che fanno un grosso consumo di farmaci. Grazie a una delibera del governo regionale toscano i farmaci per questo tipo di pazienti “dispendiosi” vengono messi a disposizione direttamente dalla Asl che li paga a prezzo molto ridotto. È il medico di famiglia a fare da tramite e a portarli direttamente al malato. "Abbiamo calcolato la cifra del risparmio - racconta Fanciullacci - su 35 accessi domiciliari mensili si aggira fra i due e tremila euro". E non solo. Un notevole contenimento della spesa si avrebbe se il medico potesse utilizzare solo le dosi terapeutiche e non essere costretto a prescrivere solo confezioni standard di farmaci. E poi l’impiego dei generici, farmaci non griffati, che hanno le stesse caratteristiche in termini di efficacia e sicurezza del prodotto di marca uscito dalle più note case farmaceutiche. Ma l’Agenzia del farmaco segnala che le prescrizioni dei generici nello scorso anno sono aumentate solo dell’8 per cento."Se da un lato i farmaci generici, dopo una serie di resistenze, sono divenuti una realtà anche in Italia - spiega il dottor Alessandro Nobili dell’Istituto Negri di Milano - la loro incidenza è ancora molto lontana da ciò che accade in altri paesi europei come per esempio la Germania e l’Inghilterra. Da noi, presso molti addetti ai lavori e tra gli stessi cittadini - continua il farmacologo del prestigioso istituto di ricerche lombardo - persiste una sorta di sfiducia in questi farmaci, a torto considerati dei surrogati o dei sottoprodotti, rispetto agli analoghi di marca". Cosa fare allora per promuoverli?"Sarebbe opportuno - spiega Nobili-, da parte del ministero fare molto di più sul piano dell’informazione e della promozione di questi farmaci. Dire con chiarezza che spendere meno in questo caso non significa acquistare un prodotto meno valido. Ma, poiché per questi farmaci viene fatta poca promozione, buon gioco hanno i privati nel ricordare e incentivare presso i medici e i cittadini l’acquisto e l'impiego dei loro prodotti di marca". E poi riguardo all’incremento del consumo farmaceutico in Italia commenta: "Certamente non si tratta di un fatto episodico; dietro all’aumento del volume delle prescrizioni, c’è qualcosa di strutturale- dice Nobili - Dire se ciò sia legato a reali cambiamenti dello stato di salute degli italiani è difficile, anche se ad una analisi superficiale si sarebbe tentati di pensarlo. Ma è vero anche che tutto il sistema, medici, farmacisti e gli stessi pazienti sono continuamente tempestati da una campagna di informazione sempre più pressante che spinge all’uso dei farmaci come unico possibile rimedio alle varie malattie del nostro tempo, specie riguardo agli psicofarmaci. Spesso basta creare un nuovo bisogno di salute, per dirottare migliaia di pazienti verso farmaci e cure in molti casi “inutili”". Psicofarmaci a volte inutili, che quando vengono gettati via, poi diventano addirittura nocivi, inquinanti. Un farmaco su 18 viene pagato dallo Stato e poi finisce negli scarichi. Con danni a livello ambientale. Una ricerca dell’Istituto Negri, condotta dal dottor Ettore Zuccato ha dimostrato che spesso farmaci e psicofarmaci " superano inalterati i processi depurativi dei reflui civili e si riversano quindi nell’ambiente". Il risultato? Se gettati nel water inquinano le falde acquifere e poi possono ritornare all’uomo, attraverso le acque potabili o le vie alimentari. Basta dire che anche nei pesci sono state ritrovati preoccupanti livelli di inquinamento da farmaci. Qualcuno – è stato il settimanale l’Espresso a lanciare l’allarme - parla addirittura di pescato al Prozac.

Farmaci e sperimentazione
Come stanno davvero le cose. A colloquio con il genetista Demetrio Neri del comitato nazionale di Bioetica
di Simona Maggiorelli

”Capita spesso che, quando andiamo in farmacia per ritirare una medicina, ci chiediamo che cosa mai ci sarà dentro la pillola da farla costare tanto. In realtà non è la materia prima che costa, quanto l'intero processo grazie al quale è diventata disponibile per noi, un processo che dura parecchi anni
e richiede investimenti notevoli. Per ogni farmaco - spiega il professor Demetrio Neri, ordinario di Bioetica all’Università di Messina e componente del comitato nazionale per la Bioetica - circa 40 milioni di euro in media, contando anche il fatto che molte molecole promettenti non si
traducono poi in farmaci”. A questo poi bisogna aggiungere i costi del marketing,” Incidono – spiega Neri - in maniera superiore persino ai costi stessi della ricerca. Poi ci sono i costi della promozione presso la classe medica. Secondo una stima, in USA le case farmaceutiche spendono ogni anno in promozione circa 10mila dollari per ogni medico. Sono fenomeni che ormai conosciamo bene anche in Italia. Ma in altri paesi europei non è così. Da noi sono in atto, ancora timidamente, progetti per diminuirne l'incidenza”.
Professor Neri come avviene, e quanto conta, la sperimentazione di nuove molecole?
La sperimentazione è uno dei passaggi fondamentali e più costosi nel
processo di ricerca e produzione del farmaco. Dopo aver selezionato la
molecola "promettente" tra migliaia di altre, se ne devono studiare le
proprietà in vitro e, se i dati sono buoni, si passa poi alla
sperimentazione: dapprima su modelli animali per le prove di tossicità,
dirette anche ad appurare gli effetti sulla capacità riproduttiva e sui
feti, e poi, sempre se i dati sono confortanti, sull'uomo. Di solito si tende a
dividere il processo di sperimentazione sull'uomo in quattro fasi, anche se si tratta di un metodo ora in via di modificazione. La prima avviene sui volontari sani e le altre su gruppi sempre più numerosi di pazienti.
Con quali garanzie?
Ormai ci sono norme consolidate per l'effettuazione della sperimentazione e un ruolo essenziale in tutto il processo è affidato ai comitati etici per la sperimentazione farmacologica. Lavorano presso gli ospedali e i centri di ricerca e hanno il compito fondamentale di approvare e monitorare la sperimentazione affinché non siano in alcun modo lesi i diritti e la sicurezza dei partecipanti, che ovviamente deve essere sempre volontaria e preceduta da una esaustiva informazione sui rischi e i possibili benefici. Se riuscissimo a rafforzare il ruolo dei CE, come già in un documento del 1999 aveva proposto il comitato nazionale per la Bioetica, alcuni dei problemi che oggi dobbiamo affrontare potrebbero essere risolti.
La corsa a nuovi brevetti farmaceutici cosa comporta, dal punto di vista della cura, ma anche per l’inasprirsi della competizione economica?
Proprio ai costi della sperimentazione farmacologica di cui parlavo poco fa si lega il problema dei brevetti. Nessuno investirebbe nella ricerca e sperimentazione di nuovi farmaci se non potesse aspettarsi un ritorno economico. Per proteggere l'investimento si ricorre ai brevetti. E' un grosso problema, specie nel caso di brevetti di tipo biotecnologico, ma io non credo che, per ora, questo strumento sia evitabile: noi, come società, possiamo chiedere di modificare la durata del brevetto, possiamo chiedere che in alcuni casi speciali - penso alla controversia tra alcune ditte farmaceutiche e il Sud Africa a proposito dei farmaci anti-Aids - il brevetto sia sospeso. Ma non possiamo abolirlo finché gran parte degli investimenti nella ricerca proviene dalle ditte private e solo una minima parte, non più del 10 per cento, dallo Stato. Se non ci fossero i brevetti noi non avremmo gran parte delle medicine, spesso salvavita, che servono per curarci: sarà spiacevole dirlo, ma le cose stanno così e non è plausibile pensare che i dati cambino in tempi ragionevoli. Il tema è collegato a quello delle "malattie orfane", cioè malattie così rare che nessuno ha interesse a ricercarne i rimedi . Sono in atto, anche a livello europeo, dei progetti per indurre le ditte a occuparsi anche di queste malattie, per esempio attraverso incentivi fiscali, ma io credo che proprio in casi del genere l'intervento pubblico diretto sarebbe più auspicabile.
In che modo le case farmaceutiche possono intervenire per condizionare la libertà dei ricercatori?
Il condizionamento dei ricercatori comincia già dai dati che ricordavamo poco fa circa le percentuali di investimenti nella ricerca: buona parte della ricerca dipende dai fondi privati, il che ovviamente non vuol dire che tutti i ricercatori si lascino condizionare. Ma bisogna approntare norme che aiutino i ricercatori a rivendicare e affermare la propria indipendenza.
Questo è oggi un tema molto sensibile. Alcuni anni fa, in seguito ad alcuni casi clamorosi di conflitto di interessi, importanti riviste mediche internazionali hanno lanciato un appello per la trasparenza e l'indipendenza scientifica della ricerca clinica. E' iniziato un movimento di
"moralizzazione" del settore, che in Italia è stato recepito e rilanciato dal Cirb, coordinamento per l'integrità della ricerca biomedica.
Che cosa si è ottenuto?
Non è facile, ma qualche risultato c’è stato. Per esempio, le grandi riviste scientifiche chiedono, prima di pubblicare il resoconto di una ricerca, una esplicita dichiarazione di assenza di conflitto di interessi, in USA le dichiarazioni vengono controllate da un Ce indipendente. Inoltre,
come chiede anche il Cirb, i Comitati etici dovrebbero rifiutare di approvare ricerche in cui il ruolo del ricercatore nella conduzione dello studio, nell'analisi dei dati e nella loro pubblicazione sia in qualche modo sminuito a vantaggio dello sponsor. Sarebbe un buon inizio, ma le difficoltà sono ancora notevoli, soprattutto perché i comitati etici attualmente non sono ben attrezzati per svolgere questo ruolo.
Ci sono stati negli ultimi anni casi eclatanti di farmaci, largamente impiegati e poi ritirati dal mercato perché nocivi. Cosa ne pensa?
Il caso dei farmaci ritirati dal commercio non è un fenomeno nuovo, anche se negli ultimi anni è apparso più evidente soprattutto perché sono migliorati gli strumenti della farmacovigilanza, capace oggi di raccogliere molti più dati sugli effetti collaterali dannosi di quanto potesse avvenire prima: spesso certi effetti collaterali diventano evidenti solo dopo la somministrazione a grandi numeri di pazienti. Le cause possono essere tante: errori nella conduzione delle sperimentazioni, talora - e speriamo che siano casi rari - vere e proprie frodi per occultamento di dati negativi. Ovviamente le frodi o i comportamenti non etici vanno perseguiti severamente, ma una certa percentuale di errori è, almeno per ora, pressoché inevitabile. Dico "almeno per ora" perché oggi si profila la possibilità di aumentare preventivamente la sicurezza e l'efficacia dei farmaci attraverso la farmacogenetica, e cioè lo studio scientifico di un fenomeno che tutti conosciamo: lo stesso farmaco dato a pazienti che soffrono della stessa malattia può generare un differente effetto terapeutico, talora nessun effetto e spesso effetti collaterali. Per spiegare questo punto occorre dire qualcosa su come funziona un farmaco.
In concreto?
L'attività di un farmaco, in breve, si esplica attraverso siti-bersaglio, recettori o enzimi, che possiamo immaginare come una sorta di finestra attraverso la quale le molecole terapeutiche entrano nelle nostre cellule e vi esercitano l'effetto benefico. La presenza o assenza di queste finestre è determinata dal corredo genetico, che varia molto tra gli individui, ed è facile capire che se una persona non ha il gene che comanda l'apertura di quella finestra non può ricevere nessun beneficio dal farmaco. Questo è un evento che si verifica più spesso di quanto si pensi e finora poteva essere accertato solo a posteriori, quando appunto in certi pazienti non si otteneva alcun effetto terapeutico e magari si manifestavano effetti avversi, talora letali. Tutto questo potrebbe presto cambiare grazie appunto alla farmacogenetica, un nuovo settore della ricerca genetica che ha lo scopo di studiare come le differenze genetiche riscontrabili tra gli esseri umani influenzino la variabile risposta dei singoli pazienti allo stesso farmaco. Grazie alla sempre maggiore conoscenza del genoma umano, è un settore in rapidissima evoluzione, che potrà in futuro consentire di somministrare il farmaco giusto al paziente giusto nella dose giusta: una sorta di farmacologia su misura.
La ricerca per la creazione di farmaci ad personam dove si sta sviluppando?
Un paese come l'Inghilterra ne ha già capita tutta l'importanza e investe in questo settore perché si attende grandi risparmi anche in termini economici. Già oggi negli Stati Uniti è stato recuperato un farmaco molto efficace per la cura di una certa forma di cancro, ma che era stato ritirato perché su alcuni pazienti i suoi effetti collaterali erano terribili: oggi viene somministrato solo a quei pazienti che hanno un certo profilo genetico. Sarebbe augurabile che anche in Italia ci fosse più attenzione a questo tema, perché effettivamente, sul lungo periodo, è l'unica strada per realizzare farmaci più sicuri e per rendere più efficiente e quindi meno costosa la loro somministrazione. Il comitato nazionale per la Bioetica sta elaborando un documento che dovrebbe uscire a giugno.
A proposito di psicofarmaci. Dopo anni di impiego del Prozac come antidepressivo è emerso che non solo può slatentizzare aggressività, ma addirittura spingere al suicidio. Ancora più controverso il caso del Ritalin, un derivato di anfetamine che negli Usa viene somministrato ai bambini affetti da un fantasmatico deficit di attenzione. Può accadere che una malattia venga addirittura creata per vendere un certo farmaco?
Non sono in grado di entrare approfonditamente nel merito del caso Prozac e del caso Ritalin, ma credo che una parte del problema si spieghi con quello che può essere chiamato un eccesso di ricorso ai farmaci, soprattutto per quegli ambiti della vita i cui disturbi richiederebbero altre forme di aiuto. Il problema è complesso: da un lato, spesso la medicina tende a presentarsi
come onnipotente e "salvifica", e quindi capace di curare ogni male; dall'altro, noi come pazienti siamo stati troppo inclini ad accettare questa immagine, mentre dovremmo smetterla di delegare la cura della salute a interventi esterni e "salvifici". Lo abbiamo fatto persino con gli antibiotici, assumendoli a tutto spiano anche quando non erano indicati. So bene che non è facile, perché ci siamo cacciati in un circolo vizioso dal quale è difficile uscire. Ci vuole molta più educazione alla salute, a cominciare dalla scuola. So bene che sulla scuola si scaricano ormai fin troppe esigenze formative: ma qui ne va della nostra salute e della nostravita.
La sperimentazione, anche degli psicofarmaci, avviene su animali. Che attendibilità può avere quando è noto che gli animali non hanno la malattia mentale?
Purtroppo gli annali della sperimentazione medica sono pieni di ricerche che avevano dato ottimi risultati sugli animali e nessun risultato sull'uomo, oppure nessun effetto dannoso sugli animali e effetti terribili sull'uomo, come nel caso del Talidomide (ndr: un sedativo negli anni 50 consigliato a tutti: bambini, vecchi, donne in gravidanza. Induceva debolezza e formicolio, disturbi dell’equilibrio, paralisi e vertigini, ma anche nascite di bimbi focomelici. Sperimentato sugli animali non aveva dato effetti collaterali). L'attendibilità dei dati diminuisce fortemente quando siamo in presenza di disturbi squisitamente umani. In realtà, nel caso degli psicofarmaci, credo venga sperimentato sugli animali non l'effetto terapeutico, ma solo la potenziale tossicità e teratogenicità del farmaco. Purtroppo per ora questo è un passaggio inevitabile ed io spero che la possibilità di evitare di ricorrere agli animali come cavie si realizzi presto: ad esempio, sfruttando un nuovo settore di ricerca, quello sulle cellule staminali. Ma sarebbe lungo chiarire questo punto, me ne sono occupato nel mio libro "La bioetica in laboratorio. Cellule staminali, clonazione e salute umana" (ndr: volume edito da Laterza che in maggio uscirà in seconda edizione).
In Italia a che punto è la farmacovigilanza? Siamo in linea con i provvedimenti europei? E infine, l’Agenzia italiana del farmaco collegata al ministero della Salute, funziona?
L'Agenzia del farmaco funziona bene, mentre la rete di farmacovigilanza richiederebbe una migliore messa a punto, soprattutto in relazione alla funzione dei medici di base che poi sono quelli a diretto contatto coi pazienti. Resta ancora molto da fare: abbiamo di recente e con ritardo recepito la direttiva europea che tende ad armonizzare le legislazioni nazionali in materia di sperimentazione farmacologica guidata dalla cosiddetta Good clinical practice, ma molti dicono che avremmo fatto meglio a rifletterci un po’: a livello europeo c'è, ad esempio, un movimento di ricercatori e bioeticisti che protesta perché ritiene, con qualche ragione, che questa direttiva sembra fatta apposta per bloccare la ricerca indipendente e non sponsorizzata, a tutto vantaggio delle grandi case farmaceutiche in grado di affrontare i costi.