martedì 22 febbraio 2005

think positive e predestinazione
così secondo l'house organ del presidente del consiglio

Panorama 18.2.05
Il cervello felice
di Michael D. Lemonick
Il buonumore e l'ottimismo in qualche modo proteggono cuore e polmoni, abbassano la pressione, potenziano le difese immunitarie. Solo da poco gli scienziati hanno iniziato a occuparsi della neurochimica delle emozioni positive. E le sorprese non mancano.
Richard Davidson era in un laboratorio a osservare un monaco buddista mentre entrava serenamente in stato di meditazione, quando notò qualcosa che fece salire il battito cardiaco del religioso alle stelle. Davidson, professore di psicologia e psichiatria all'Università del Wisconsin, andò subito a controllare sullo schermo del computer i dati provenienti dagli elettrodi attaccati al cranio del monaco, ma non c'era alcun errore: l'attività elettrica del lobo prefrontale sinistro del cervello del monaco stava aumentando a un ritmo impressionante. «È stato emozionante» ricorda Davidson. «Non ci aspettavamo di vedere qualcosa di così straordinario».
All'epoca della scoperta, cinque anni fa, Davidson stava studiando il legame tra l'attività del lobo prefrontale e quel tipo di beatitudine provata da coloro che praticano la meditazione. Ma anche per un esperto vedere il cervello fremere in grande attività quando una persona entra in una sorta di trance era inedito. Secondo Davidson, la felicità non è solo una vaga e ineffabile sensazione, bensì una condizione fisica del cervello che può anche essere indotta.
E non è tutto. Quando hanno scoperto le caratteristiche fisiche di un cervello felice, i ricercatori hanno anche notato che tali tratti avevano potenti effetti sul resto del corpo. Coloro che nei test psicologici raggiungono i punteggi più elevati nella valutazione dello stato di felicità producono mediamente il 50 per cento in più di anticorpi in risposta ai vaccini antinfluenzali e questo, a detta di Davidson, «fa una gran bella differenza». Altri hanno visto che la felicità o i relativi stati mentali, come la tendenza alla speranza, l'ottimismo e la gioia, sembrano ridurre il rischio o almeno limitare la gravità di malattie cardiovascolari, polmonari, diabete, ipertensione, e addirittura raffreddore e infezioni delle vie aeree superiori. Uno studio olandese condotto su pazienti anziani e pubblicato in novembre ha mostrato che questi atteggiamenti mentali positivi hanno dimezzato il rischio di morte nell'arco dei nove anni di durata dell'osservazione.
È da tempo ormai che i medici sanno bene che la depressione, ossia l'esatto contrario della felicità, può peggiorare le cardiopatie, il diabete e numerose altre malattie. La neurochimica della depressione è molto più conosciuta di quella della felicità, perché è stata studiata molto più a fondo e più a lungo. Fino a una decina d'anni fa, afferma Dacher Keltner, psicologo dell'Università della California di Berkeley, «il 90 per cento della ricerca sulle emozioni si concentrava su quelle negative, ed è per questo che siamo ancora qui a porci tutte queste domande interessanti sullo stato positivo».
Ma che cos'è realmente la felicità? La parola, come osserva Davidson, «viene in realtà utilizzata per descrivere una costellazione di stati emozionali positivi. È una condizione di benessere in cui un individuo in genere non è motivato a cambiare il proprio stato, anzi è motivato a prolungarlo. Si associa a una sensazione simile alla voglia di abbracciare il mondo, ma le caratteristiche esatte e i confini di queste sensazioni devono ancora essere definiti seriamente dalla ricerca scientifica».
Eppure, le persone esaminate possono dire agli studiosi in modo coerente quando si sentono bene e le due tecnologie di visualizzazione del cervello utilizzate, la risonanza magnetica funzionale (fMri), che rileva la circolazione del sangue nelle parti attive del cervello, e l'elettroencefalogramma, che registra l'attività elettrica dei circuiti neuronali, mostrano chiaramente che la corteccia prefrontale sinistra è il sito primario della felicità.
«Siamo abbastanza sicuri che questa zona del cervello sia alla base di almeno certi tipi di felicità» dice Davidson. Ciò suggerisce che ci sono persone geneticamente predisposte a essere felici grazie a cortecce prefrontali molto attive, e la ricerca sul neonato lo conferma.
Davidson ha misurato l'attività prefrontale sinistra nei bambini al di sotto di un anno di età e poi li ha sottoposti a un test in cui le madri lasciavano la stanza per un breve periodo. «Alcuni bambini scoppiano subito in un pianto disperato non appena la madre si allontana» afferma lo scienziato. «Altri mostrano maggiori capacità di recupero». E sembra che i bambini con una maggiore attività prefrontale sinistra siano quelli che non piangono.

UNA RISATA VI RISANERÀ
Gianna Milano
Fa bene al corpo e alla mente. Tanto che ovunque nascono speciali club
Che una bella risata faccia bene alla salute non è solo un modo di dire. Le ultime ricerche hanno delineato i meccanismi biologici che trasformano il riso in un beneficio per il cuore, la respirazione e lo stress. Diversi esperimenti hanno dimostrato che la risata serve ad abbassare la pressione, aiuta a ossigenare i polmoni ed è un toccasana per l'umore.
Da qualche anno sono nati nel mondo, dalle Filippine all'Italia, 1.800 Club della risata: fanno parte di un movimento creato in India, nel 1995, da Madan Kataria, un medico. La sua terapia, basata su una serie di risate provocate unite a esercizi, si chiama Hasya yoga. «Ridere è contagioso e per funzionare basta essere in gruppo. Il momento migliore è il mattino e bastano 15-20 minuti per ottenere benefici. Dopo ci si sente carichi e si affronta meglio la giornata» sostiene. E proprio all'alba si radunano nei parchi gruppi di persone per ridere insieme.
Ma che cosa c'è dietro una risata, linguaggio universale, riconosciuto da tutte le culture e contagioso, che esprime emozioni e invia segnali di simpatia, approvazione, disprezzo, solidarietà, superiorità? Perché si producono ridendo queste vocalizzazioni dai timbri e dai significati diversi che fanno parte del vivere quotidiano?
Tutti sanno che è una manifestazione spontanea di allegria, di spensieratezza. «Ma anche un comportamento sociale di rara potenza, qualcosa che ci mette in relazione con gli altri, per stabilire un legame, esprimere apprezzamento, ma anche per umiliare o esercitare ostracismo su chi è vittima della nostra risata. I despoti infatti ne temevano il potere» scrive Robert Provine, neuroscienziato americano, nel libro Ridere. Da anni dedica i suoi studi all'evoluzione e ai meccanismi neuronali di questa reliquia vocale che coesiste con il linguaggio.
La risata è una caratteristica innata che l'uomo condivide solo con i primati, dagli scimpanzé ai gorilla. Cosa questa già nota a Charles Darwin e confermata dall'etologo olandese Jan Van Hoff, che cercò di capire in quali circostanze i primati emettono quei rauchi e ansimanti suoni che sono le loro risate. Il ricercatore concluse che sia negli uomini sia nei primati la risata è legata a un atteggiamento giocoso, anche se in questi ultimi è sempre prodotta da un contatto fisico, come il solletico o la finta lotta. Nelle vocalizzazioni e nei meccanismi respiratori che producono la risata nelle grandi scimmie Provine ritiene ci sia la chiave per capire l'evoluzione del linguaggio umano.
In breve, come i genitori sanno istintivamente, alcuni bambini semplicemente nascono felici. Ma gli studiosi delle neuroscienze nell'ultimo decennio hanno anche appreso che il cervello ha una grande plasticità e si riconfigura in risposta all'esperienza, in particolare prima della pubertà. Pertanto si può ingenuamente ipotizzare che le esperienze negative possano distruggere una personalità felice, ed effettivamente se sono estreme e frequenti, ciò è possibile. Ma Davidson ha notato che una piccola o moderata quantità di esperienze negative è invece positiva (in studi sugli animali, ha paragonato gruppi che avevano subito stress di entità moderata in giovane età ad altri che ne erano stati immuni e ha osservato che i primi si riprendevano meglio dalle situazioni difficili, una volta adulti). Secondo Davidson, il motivo è che con gli eventi dolorosi ci alleniamo a respingere le emozioni sgradevoli: è come un esercizio per rafforzare i muscoli della felicità o un vaccino contro la malinconia.
Ma qual è esattamente la differenza fisica che esiste tra una corteccia prefrontale sinistra predisposta alla felicità e una che non lo è? I neurotrasmettitori, quelle sostanze chimiche che trasportano i segnali da un neurone a un altro, sono quasi sicuramente implicati. E sebbene la corteccia prefrontale sia immersa in un mare di neurotrasmettitori, quali dopamina, serotonina, glutammato, Gaba e altri, Davidson è convinto che la dopamina rivesta un'importanza particolare.
Secondo studi effettuati sugli animali, questo neurotrasmettitore media il trasferimento dei segnali associati alle emozioni positive tra l'area prefrontale sinistra e i centri emozionali nella zona limbica del cervello, come il nucleus accumbens, situato all'interno del corpo striato ventrale.
Le persone dotate di una versione sensibile del recettore che riceve la dopamina tendono ad avere stati d'animo migliori. Le vie della dopamina possono essere importanti soprattutto per quegli aspetti della felicità associati al tendere verso uno scopo, di qualsiasi tipo (il monaco che mira a raggiungere un determinato stato durante la meditazione, ma anche il fumatore cui viene permesso di accendersi una sigaretta dopo 24 ore di privazione). Ma altri tipi di felicità, quali il piacere fisico, potrebbero essere legati all'azione di sostanze chimiche diverse, attive a livello neurologico.
Capire la neurofisiologia dello stare bene è una cosa; un'altra è comprendere in che modo le emozioni positive influiscono sul resto del corpo. Come per gli studi sul cervello, la parola felicità è troppo vasta per un approccio rigoroso e così i ricercatori tendono a concentrare la loro attenzione su aspetti specifici.
Laura Kubzansky, psicologa di Harvard, ha scelto di studiare l'ottimismo. In un vasto studio ha seguito 1.300 uomini per 10 anni e ha osservato che le percentuali di cardiopatie insorte in quelli che si autodefinivano ottimisti erano dimezzate rispetto a quelle di coloro che non si definivano felici. «L'effetto si è rivelato molto più evidente di quanto ci aspettassimo» sostiene la studiosa, così come la differenza tra i fumatori e i non fumatori. «Abbiamo osservato anche la funzione polmonare, poiché una funzione polmonare scarsa è un buon indicatore di tutta una serie di esiti infausti, tra cui morte prematura, malattia cardiovascolare e malattia polmonare cronica ostruttiva». E ancora, gli ottimisti stavano decisamente meglio. «Io sono un'ottimista» afferma Kubzansky «ma non mi aspettavo simili risultati».
In una serie di esperimenti iniziati nel 1998, lo psicologo Robert Emmons dell'Università della California di Davis ha trovato altre prove del fatto che le persone felici si mantengono meglio in salute. Emmons ha suddiviso in modo del tutto casuale mille adulti in tre gruppi; al primo è stato chiesto di tenere un diario quotidiano dei propri stati d'animo, assegnando un voto da 1 a 6 a ogni sensazione; i soggetti del secondo gruppo tenevano un diario nel quale annotavano le cose che li avevano irritati o infastiditi di più durante il giorno e anche il terzo gruppo scriveva un diario, ma per annotarvi ogni giorno un'attività che aveva ripetutamente dimostrato di migliorare il loro senso di soddisfazione nei confronti della vita; insomma, dovevano annotare ogni giorno le cose per cui si sentivano grati. Nonostante la suddivisione casuale dei gruppi, l'ultimo non soltanto ha registrato il netto miglioramento previsto quanto a benessere generico ma, come afferma Emmons, è stato anche quello che faceva più esercizio fisico, che si sottoponeva più di frequente a visite mediche di controllo e adottava normalmente una serie di comportamenti di prevenzione, per esempio ripararsi dai raggi solari.
In generale, il gruppo della «gratitudine» si comportava in modo da garantirsi uno stato di salute migliore. «In breve, tenere il diario ha contribuito al benessere fisico ed emotivo di quelle persone. La gente che si sente piena di gratitudine tende a percepire il proprio corpo in un certo modo» dice Emmons. «Sente la vita come un dono, la salute come un dono. E così vuole fare qualcosa per conservarlo».

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ANCHE PREDESTINATI AL PIANTO
Esiste una predisposizione genetica all'allegria? Forse, suggeriscono gli esperimenti di Richard Davidson. A bambini con meno di un anno viene misurata l'attività prefrontale sinistra, dopo che la madre esce dalla stanza per un breve periodo: alcuni scoppiano subito in un pianto disperato, altri mostrano maggiori capacità di recupero.
Pare che i piccoli con una maggiore attività prefrontale sinistra siano anche quelli che piangono meno. «In base a ciò, siamo in grado di predire quali bambini sono più portati al pianto di altri» afferma Davidson.